Bibliografia Ferroviaria Italiana

 

Treno 8017. Il più grave disastro ferroviario italiano

 

Articolo di Corrado Martucci, pubblicato in "Oggi", 15 marzo 1951, pagine 7-8

 


 

NEL TRAGICO "MERCI" 8017 GIACEVANO QUATTROCENTO CADAVERI
La sciagura della galleria delle Armi, presso Potenza, avvenuta nel '44, può costare un miliardo allo Stato
Corrispondenza di CORRADO MARTUCCI

Napoli, marzo

Per la più grave sciagura ferroviaria della storia italiana le Ferrovie dello Stato dovranno pagare circa un miliardo di lire di risarcimento danni alle famiglie di 427 vittime, se il ricorso presentato dall'Amministrazione ritenuta responsabile del disastro sarà respinto dalla Corte d'Appello di Napoli, che deciderà in merito il 28 marzo prossimo.

La tragedia di Balvano, oggetto di questi giudizi, è poco nota. Essa si verificò nel 1944, quando il fronte era fermo sul Garigliano, e quando nell'Italia Meridionale gli alleati controllavano tutte le attività. A Napoli si pubblicava un solo giornale, il Risorgimento, che si stampava sotto la sorveglianza del governo militare, ed usciva in piccolo formato: non esistevano, praticamente, servizi di corrispondenza, e le notizie venivano fornite direttamente dal P.W.B. Ma se del pauroso episodio fu fatto soltanto un frettoloso cenno, senza particolari, senza il numero delle vittime e senza l'indicazione della località nella quale era avvenuto, la colpa non deve essere attribuita esclusivamente alla inadeguatezza dei servizi d'informazione, ma anche al governo militare alleato, che non volle dare pubblicità alla cosa. La questione è tornata a galla, in sordina, nel 1946, ma soltanto oggi, alla vigilia del giudizio di appello, il velo si è squarciato completamente.

UN TRENO CON 47 VAGONI

La sciagura si verificò nella notte fra il 2 e il 3 marzo del 1944. In quell'epoca tra Napoli e Potenza esisteva una sola linea ferroviaria a vapore per viaggiatori, bisettimanale, che partiva dalla capitale campana il mercoledì e il sabato: l'8021. Sullo stesso percorso transitava, senza orari fissi, il treno merci 8017, adibito dagli alleati al trasporto di armi e munizioni. Era uno di quei treni a "orario libero" (O. L.), dei quali le truppe di occupazione si servivano spesso. Le autorità angloamericane, quando le necessità le imponevano, ordinavano al personale ferroviario italiano di "formare" un convoglio di un determinato numero di vagoni, a tambur battente. Non ammettevano difficoltà di carattere tecnico, non volevano sentir parlare di coincidenze, di linee a binario unico, di tutti quegli importanti particolari che rendono il traffico ferroviario di un Paese civile simile, per precisione, a un movimento di orologeria.

Il "merci" 8017, composto di 47 vagoni trainati da due locomotive, partì vuoto, da Napoli, nel pomeriggio del 2 marzo, diretto a Potenza, dove l'attendeva un carico di materiale bellico che era stato nascosto in arsenali segreti posti fra le montagne, al sicuro dagli attacchi aerei tedeschi. Il convoglio procedeva a lenta andatura, e, strada facendo, venne letteralmente assalito da gruppi di clandestini, in maggior parte piccoli contrabbandieri, che andavano a rifornirsi, in Lucania, di generi alimentari. Lo scarso personale viaggiante italiano che aveva preso posto sul treno non era in grado di opporre la forza alla prepotenza di quei passeggeri senza biglietto, né la M.P. di scorta si preoccupava della cosa. Fu così che, prima che il "merci" toccasse Balvano, un paesello di poco più di 3000 abitanti, distante da Potenza 37 chilometri, i clandestini erano saliti a seicento. Essi viaggiavano come potevano, alcuni seduti sui respingenti, altri sdraiati sull'imperiale. Quasi tutti recavano sacchi, ceste e valigie.

A Balvano la strada comincia ad essere in notevole pendenza, e il declivio si fa sempre più sensibile man mano che si procede verso Potenza. Il treno, superato il paesello, avrebbe dovuto attraversare quattro gallerie. Attraversò, a velocità ridotta, la prima; sbucò, a passo d'uomo, dalla seconda; sotto la terza, sembrò che stesse per fermarsi, poi riprese la faticosa marcia. Imboccò la quarta, detta "delle Armi", all'una di notte. Pochi, al di fuori del personale addetto alle locomotive, erano svegli. I vagoni erano pieni di buio e dì silenzio. Lo sbuffo delle locomotive si faceva sempre più affannoso. Fu gettato altro carbone nelle caldaie, si ebbe uno sbuffo più forte, il tunnel si riempì di fumo acre, che prendeva alla gola, e dopo qualche minuto il convoglio si fermò. Una parte delle vetture era rimasta al di fuori della galleria, e di lì, poco dopo, si sentirono delle voci, prima sommesse, poi urlanti. Erano grida di paura, di orrore.

I vagoni coperti dal tunnel rimanevano avvolti nel silenzio. Essi, ormai, erano tante tombe. Il treno s'era fermato con un carico di cadaveri.

I primi a morire furono i conduttori, Domenico Sessa, di 43 anni, da Pellezzano, Vincenzo Cuoco, di 45, da Benevento, e Luigi Ventre; i frenatori Onofrio d'Ambrosio, di 21 anni, da Ricigliano, e Paolo Delli Carri, di 49 anni, da Benevento; il macchinista Matteo Gigliano, di 55 anni, da Salerno, e il manovale Rosario Barbaro, di 31 anni, da Torchiara. La maggior parte dei clandestini fu colta dalla morte nel sonno.

MORTI SENZA NOME

Soltanto due ore dopo il capo stazione di Balvano, Vincenzo Maglio, che aveva regolarmente informato della partenza del convoglio il collega del successivo scalo ferroviario, sito a Bella Mura, seppe che dell'8017 non si avevan più notizie. Il ritardo non deve impressionare, in quanto tutti sapevano che i "merci" requisiti dagli alleati per i loro trasporti, essendo "O.L.", si fermavano quando volevano e quanto volevano, senza preoccuparsi di quello che poteva accadere davanti a loro, o alle loro spalle.

La notizia del sinistro fu portata a Balvano dal frenatore Vincenzo Palo, che si trovava in una delle vetture che non avevano imboccato il tunnel. Egli era in condizioni pietose, all'estremo delle forze, lacero, infreddolito, atterrito. Aveva camminato per tre chilometri a piedi, nella notte gelida, inseguito da visioni di morte. Non aveva idea di come fosse accaduto "il fatto". Era stato dopo l'ultima, violenta sbuffata: cosa c'era, in quel maledetto carbone, quale veleno, quale micidiale gas? Certo che era perita tanta gente, là nel treno, uomini e donne, asfissiate. In una ventina di minuti era passata dal sonno alla morte.

Ci volle del tempo prima che una locomotiva si potesse muovere dalla stazione di Balvano per raggiungere il teatro della tragedia. Intanto erano stati avvertiti della sciagura i carabinieri di Potenza, e i vigili del fuoco di Salerno e di Napoli, che accorsero con la massima celerità consentita dalla scarsità degli automezzi e dalla mancanza di benzina. Poco meno di cento, tra gli intossicati, erano ancora in vita, e furono salvati quasi tutti: erano quelli che si trovavano presso l'imbocco della galleria. Ma ce n'erano tanti, di cadaveri, nel treno merci. Quando si fece un consuntivo, si seppe che 427 persone ci avevano lasciato la vita. Una cifra impressionante. Qualcuno sostiene che le vittime siano state 521: ma, dato che nel treno fatale non si svilupparono incendi, e che nessuno dei vagoni deragliò e si sfasciò, riteniamo che la prima cifra dovrebbe essere la più esatta, poiché non possono essere intervenuti fatti nuovi, e non possono essere stati scoperti cadaveri nascosti. Sul posto vennero identificate dai documenti del portafogli soltanto 235 vittime: le altre o erano state derubate del portafogli con danaro e documenti prima dell'arrivo dei soccorsi, o non avevano mai posseduto portafogli e documenti. E tuttora molti di quei morti non hanno un nome. Probabilmente molte famiglie che cercano i loro cari scomparsi, non sanno che essi sono sepolti a Balvano.

Li seppellirono in tre fosse, nei pressi della stazione: due per gli uomini, una per le donne. Le salme furono benedette, poi le fosse furono chiuse con uno spesso strato di calce.

Gli alleati svolsero un'inchiesta. La perizia, che fu compiuta da due specialisti, il capitano Osborn e il comandante Gilbertson, dell'armata francese, accertò che la morte era stata determinata da asfissia per avvelenamento da monossido di carbonio, esalato da carbone di cattiva qualità. Si trattava di carbone jugoslavo, di un tipo che viene usato tuttora, ma soltanto per i "merci" che compiono percorsi in aperta campagna, senza attraversare tunnel, data la sua forte tossicità. Alla fermata del treno sotto "le Armi" avevano contribuito vari fattori. Innanzitutto, il carico eccessivo. 47 vagoni son sempre troppi, anche per due locomotive: il peso dei 600 clandestini aveva fatto traboccare il vaso già colmo. Altro elemento, che si sarebbe potuto evitare se il treno avesse potuto mantenere una certa velocità, l'intossicazione del personale di macchina, che fu costretto ad abbandonare i comandi. In terzo luogo, la leggerezza con la quale si era usato del carbone di quel tipo sapendo che il convoglio avrebbe dovuto attraversare diverse gallerie.

BATTAGLIA GROSSA

Comunque, i risultati dell'inchiesta dell'A.M.G., furono archiviati, e per un certo tempo della cosa non si parlò più. La tragedia di Balvano rimase a tormentare i sonni delle donne, degli uomini, che sapevano di avervi perduto i genitori, i mariti, le mogli, e di quanti la avevano vissuta. Erano anni convulsi, quelli, anni di confusione, di delirio.

Poi, a un tratto, nel 1946, il tribunale di Potenza promuoveva un processo al fine di accertare ed eventualmente colpire eventuali responsabilità penali nella sciagura della galleria "le Armi". Ma il processo fu archiviato, il 18 dicembre dello stesso anno, con la conclusione che il disastro non era addebitabile a colpa o dolo di chicchessia. Sempre nel 1946, una donna, Luisa Cozzolino, vedova Palumbo, che aveva perduto il marito nel disastro, citava le Ferrovie dello Stato per il risarcimento dei danni. Sembrò, alle prime, un gesto isolato, ma non lo era. Alla prima seguirono altre 300 citazioni da parte di parenti delle vittime. Attualmente, presso il tribunale di Napoli sono depositati 41 procedimenti di azione civile per danni: i familiari delle vittime si sono infatti riuniti in gruppi, con il patrocinio di avvocati comuni.

In merito a un primo gruppo di nove cause il tribunale di Napoli si è già pronunziato, riconoscendo la propria competenza a decidere, salvo il risarcimento dei danni da effettuarsi in separata sede. Si tratta di una sentenza nettamente sfavorevole alle Ferrovie, che avevano sostenuto, e continuano a sostenere, che il risarcimento, trattandosi di "danni prodotti dagli alleati in conseguenza di azioni non di combattimento", è di competenza dell'ufficio Danni di Guerra presso l'Intendenza di Finanza. Contro questa sentenza la Amministrazione, a mezzo dell'avv. De Simone, dell'Avvocatura di Stato, ha proposto appello, ed è decisa a ricorrere in Cassazione se le sue eccezioni saranno respinte.

La difesa delle FF. SS. si basa principalmente sul fatto che la responsabilità del traffico, all'epoca del sinistro, era nelle mani degli alleati, i quali governavano di fatto, anche se, di diritto, una parte del territorio liberato, comprendente Napoli e Potenza, avrebbe dovuto tornare all'autorità italiana, in base a un decreto del febbraio '44. Inoltre, le vittime non erano fornite di biglietto, e quindi, tra loro e l'Amministrazione, non era intercorso nessun contratto. Infine, la competenza a decidere dovrebbe spettare al tribunale di Potenza, e non a quello di Napoli.

La battaglia che si combatterà il 28 marzo sarà una grossa battaglia: per lo Stato perderla significherebbe spendere un miliardo tra risarcimenti e spese, a meno che non si riesca a spuntarla con il ricorso in Cassazione. Un miliardo per pagare 427 vite umane.

Corrado Martucci