Bibliografia Ferroviaria Italiana

 

Treno 8017. Il più grave disastro ferroviario italiano

 

Articolo pubblicato in "Nuova Stampa Sera", 21-22 marzo 1951, pagina 6

 


 

Treno 8017 - Nuova Stampa sera - Torino, 21-22 marzo 1951

3 Marzo 1944: il più grande disastro ferroviario della storia italiana
Morti nel sonno in cinquecento
Intossicati dall'ossido di carbonio sotto la Galleria delle Armi - Trecento famiglie chiedono ora un miliardo di danni alle Ferrovie dello Stato - La Corte d'Appello di Napoli tenterà a giorni di chiarire i punti tuttora oscuri di uno fra i più terribili drammi della guerra

Napoli, mercol. sera.

Si discuterà presto alla Corte d'Appello di Napoli la più grande causa per risarcimento danni di questo dopoguerra (è in gioco almeno un miliardo), in relazione al più grande disastro ferroviario della storia italiana, e forse del mondo. La causa, che deve confermare o cassare una precedente sentenza del Tribunale, è fissata a ruolo per il 28 corrente; compare in stato d'accusa l'Amministrazione Ferrovie dello Stato; accusatori sono i congiunti di trecento persone che persero la vita in uno fra i drammi più foschi, oscuri e terribili del tragico 1944: il disastro del treno 8071 nella Galleria delle Armi.

Il dibattito giudiziario napoletano servirà, si spera, a chiarire fra l'altro i molti punti che restano controversi e incerti nella storia della grande sciagura, accaduta sette anni fa. Dopo due inchieste ufficiali e due deliberazioni della magistratura, infatti, non si conosce ancora esattamente neppure il numero delle vittime: furono probabilmente 521, ma altre fonti parlano di 500-600 morti; ne c'è unanimità sui superstiti, salvati dall'intervento sia pure tardivo delle autorità e curati nell'ospedale di Potenza: da 80 a 200. Queste incertezze si spiegano con il momento in cui si produsse la tragedia e le circostanze in cui furono condotte le inchieste.

Laconico annuncio

Il 7 marzo del '44 il «Risorgimento», il solo giornale che uscisse allora a Napoli, e con poche pagine e in formato ridotto, registrava in poche righe la notizia di un incidente ferroviario, in cui erano perite molte persone; non specificava né il loro numero, né la località in cui si era prodotto il disastro. Poi fu il silenzio; anche una volta finita la censura alleata e restituita l'amministrazione alle autorità italiane, la stampa distratta da altri avvenimenti non ritornò più sulla tragedia. Ne erano stati testimoni solo pochi pastori e contadini abitanti fra Bella Muro e Balvano, alcuni funzionari delle ferrovie, cinque carabinieri e due medici, nonché una guardia campestre, nel nebbioso e nevoso mattino del 3 marzo.

Ma ancora poche settimane fa, nel corso di alcuni lavori di scavo eseguiti nel piccolo cimitero di Balvano, si videro improvvisamente affiorare alla superficie dei resti umani, commisti a brandelli di vesti. Qualcuno disse: «sono i contrabbandieri di Balvano che non trovano pace. Non stanno tranquilli nemmeno nella tomba». Contrabbandieri: infatti la tragedia della Galleria dell'Armi è uno fra i tanti drammi della miseria imputabili alla guerra.

Il 2 marzo 1944, ore 16, stazione di Salerno: parte il treno merci O.L. (a orario libero) 8071, con destinazione Potenza. È composto di due locomotive, due bagagliai e 45 carri merci vuoti; è stato formato su ordine della A.M.G. per andare a caricare munizioni in una base segreta della Lucania e viaggia con regolare permesso del comando alleato, ma senza scorta di polizia militare inglese o americana. Il servizio di protezione è disimpegnato da sette soldati italiani agli ordini di un ufficiale. I ferrovieri italiani non volevano partire: le macchine erano state caricate con carbone jugoslavo di qualità scadente, che sviluppa molto ossido di carbonio e scarsa potenza, ed è quindi pericoloso nelle gallerie a forte pendenza di questa linea. I funzionari alleati, però, si dimostrarono Intransigenti.

Il convoglio era appena uscito dalla stazione, che fu preso d'assalto dal soliti «clandestini»: erano per lo più giovanotti e ragazze dai 17 ai 30 anni che con i loro fagotti, i loro sacchi, i loro zaini andavano a rifornirsi di derrate alimentari in Lucania. Con questo piccolo e rischioso traffico campavano la vita, non morivano di fame. Nemmeno da sognare di poter prendere il treno in servizio passeggeri: ce n'erano due soli alla settimana fra Napoli e Potenza. Sui merci, inoltre, non si pagava biglietto. Così, nonostante il freddo e la prospettiva di un viaggio notturno, si sistemarono in forse 800 dentro i vagoni, sui tetti, nella cabina dei frenatori, persino sui respingenti.

Viaggio normale, seppure lentissimo, fin quasi alle porte di Potenza. Alle 0,12 del 3 marzo il treno si arresta a Balvano, piccolo paese di duemila abitanti a una quarantina di chilometri dal capoluogo regionale, e ne riparte alle 0,50 iniziando la salita. Da una pendenza iniziale del 6 per mille si giunge a un massimo del 29 per mille; la linea è a un binario solo, corre in un paesaggio cupo e orrido, e attraversa numerose gallerie. Le prime due furono attraversate normalmente, se pure a velocità eccezionalmente ridotta; quando però quasi tutti i vagoni si furono addentrati nella Galleria delle Armi, stretto budello di quasi tre chilometri in cui i treni sembrano entrare a stento, le ruote cominciarono a girare a vuoto sulle rotaie bagnate.

Disperata manovra

Era forse l'1,20. Quasi tutti a bordo dormivano: nella notte eccezionalmente oscura si sentiva soltanto l’ansimare delle due locomotive di testa e di coda. Il convoglio si arrestò, incominciò a scivolare lentamente all'indietro verso la discesa ripidissima e tortuosa. I macchinisti strinsero i freni, poi diedero il tutto vapore, ma il carbone non ardeva per l'umidita e la povertà di ossigeno dell'ambiente, mentre dai forni ai sprigionava un fumo sempre più denso e carico del venefico ossido di carbonio.

Il macchinista della prima locomotiva, Senatore Espedito, tentò ancora una disperata manovra: si applicò al viso un fazzoletto bagnato, si gettò sulle leve di comando, disinnestò la marcia in avanti e cercò di mettere la marcia indietro. Non ci riuscì: cadde svenuto prima di aver potuto completare li movimento; e del resto la pressione contraria dell'altra locomotiva avrebbe reso vano anche questo tentativo. Il coraggioso macchinista fu trovato molte ore più tardi appeso alla leva e con il volto semicoperto dal fazzoletto. Nel convoglio immobile gli altri passeggeri erano passati quasi tutti dal sonno alla morte senza accorgersi di nulla, intossicati dal terribile fumo.

Solo il frenatore Vincenzo Palo, trovandosi in coda al convoglio, aveva capito la tragedia che si preparava prima di perdere la conoscenza; si era gettato dal vagone in preda al primi sintomi di asfissia e si era trascinato verso la stazione di Balvano inciampando nel terreno accidentato, scivolando, trascinandosi a carponi quando il gelo e l'incipiente soffocazione gli toglievano le forze. Giunse a Balvano alle 4 del mattino, quando finalmente da questa stazione e dall'altra successiva, di Bella Muro, si era deciso di ricercare il treno «scomparso».

Il Palo non ebbe la forza di dire una sola parola. Ma non serviva. Tutti capirono che era successo qualcosa di terribilmente grave. Si perdettero minuti preziosi per cercare delle lanterne e tutti gli attrezzi necessari a inoltrarsi nella profonda oscurità delle gallerie (a quei tempi le stazioni erano quasi completamente prive del materiale in normale dotazione). Finalmente una locomotiva di riserva incominciò lentamente l'esplorazione della linea. Era quasi l'alba - un'alba grigia che preannunciava la neve - quando 500 metri dopo l'imbocco della galleria i ferrovieri si trovarono di fronte ad uno spettacolo terrificante di morte, reso anche più opprimente dal sovrumano silenzio.

Non un grido, un lamento, un gemito. Dormivano tutti, i più nel sonno della morte. Sbigottiti i soccorritori contemplarono quello strazio, poi corsero a chiamare il sindaco, i carabinieri, i due medici del paese, la guardia campestre; venivano intanto piccoli gruppi di contadini abitanti nei casolari tutto intorno. Il convoglio fu spinto indietro fino alla stazione di Balvano e allora si cominciò a frugare febbrilmente in quella massa di corpi inerti, alla ricerca di un fremito di vita. Pochi respiravano ancora debolmente.

Con i pochi automezzi racimolati a fatica - si pensi alle difficoltà della circolazione, allora - i superstiti furono portati in stato di incoscienza all'ospedale di Potenza, mentre sui marciapiedi della stazione e fra i binari andavano allineandosi i cadaveri anneriti e cenciosi che non erano caduti nella tomba oscura della galleria. Duecentotrentacinque furono identificati dai documenti che avevano addosso; gli altri restarono e resteranno sempre dei morti senza nome. Dopo le indagini necroscopiche condotte dal capitano Osturn e dal tenente Gibelton, francesi, per ordine dell'A.M.G., le salme furono benedette, sepolte in tre grandi fosse comuni - due per gli uomini, una per le donne - e ricoperte di calce.

Un muro di silenzio

Fra lo vittime identificate si scoprì che molti dei viaggiatori erano parenti fra loro e originari quasi tutti degli stessi paesi dei dintorni di Napoli; si constatò anche che erano periti in un ambiente saturo di ossido di carbonio al 12%, cioè 24 volte la percentuale sufficiente a procurare in un'ora la morte di un adulto! Sui particolari del disastro, peraltro, nemmeno i superstiti poterono fornire indicazioni: sorpresi da intossicazione nel sonno, al loro risveglio nell'ospedale di Potenza avevano perduto completamente la memoria della loro tragedia.

Le autorità inquirenti si trovarono di fronte ad un muro fatale di silenzio; e del resto il governo militare alleato ordinò presto che l'inchiesta venisse passata agli archivi. Inutile cercare dei responsabili fra i ferrovieri. È questa la conclusione cui giunse nel dicembre del '46 il Tribunale di Potenza investito della questione. Però nello stesso anno la vedova di un certo Palumbo, che aveva perduto il marito nel disastro, intentò causa alle Ferrovie dello Stato chiedendo i danni, e il suo esemplo fu seguito presto da trecento famiglie.

Il Tribunale di Napoli condannò l'amministrazione ferroviaria, poiché il treno era un treno civile italiano portato da personale italiano; il Ministero dei Trasporti respinge la sentenza, eccependo che gli alleati erano responsabili del governo In Italia, che il treno parti su ordine delle autorità militari e che i «clandestini» non avevano pagato il biglietto. Si rivolgano, dunque, i familiari delle vittime al Ministero del Tesoro, che ha un ufficio per i danni di guerra.

Su questa questione è chiamata a pronunciarsi la Corte d'Appello di Napoli, ma già l'Amministrazione delle FF. SS. si dichiara disposta a ricorrere in Cassazione, qualora dovesse venire condannata ancora una volta al risarcimento dei danni.

[Didascalia] Il tragico aspetto della stazione di Balvano, piccolo paese di 2.000 anime a circa 40 km da Potenza, la mattina del 3 marzo 1944.

[Didascalia] Luigi Cozzolino, da Rosana (Napoli) uno dei pochissimi scampati alla tragedia, nella quale, però, ha perduto la memoria. Sono con lui la moglie e i figli.