Bibliografia Ferroviaria Italiana

 

Treno 8017. Il più grave disastro ferroviario italiano

 

Articolo di Giulio Frisoli, pubblicato in "Il lavoro illustrato", 1953, pagine 15-16

 


 

LA LUNGA TOMBA NELLA MONTAGNA LUCANA
Quando il fumo del carbone jugoslavo si sparse nella galleria, i primi ad esserne colpiti furono i macchinisti e i fuochisti, che furono ritrovati convulsamente abbracciati alle leve di comando; poi quella morte silenziosa si insinuò nei polmoni dei viaggiatori, che passarono così, senza nemmeno avvedersene, dal sonno alla morte.

NAPOLI, febbraio

Fra qualche giorno, il Ministero del Tesoro incomincerà a emettere un certo numero di mandati di pagamento a favore di una categoria di danneggiati di guerra davvero speciale: quella dei reduci e dei parenti delle persone che furono, nove anni fa, vittime del più grave disastro ferroviario che si sia verificato in Italia, e forse nel mondo.

Se una cosa simile accadesse oggi, i giornali uscirebbero con titoli a cinque, sei colonne. Il marzo del 1944, invece, l'Italia era divisa in due, e nella parte occupata dagli Alleati vigeva un severo criterio di censura, giustificato d'altronde dalle vicende belliche. Solo il Risorgimento, l'unico quotidiano napoletano autorizzato dalle autorità alleate, ne dette notizia, con poche righe di cronaca nelle quali non veniva specificata né la località in cui il disastro era avvenuto, né il numero delle vittime.

La località era Balvano, un piccolo paese lucano che si trova sulla linea ferroviaria Napoli-Potenza, e dista da questa ultima città una cinquantina di chilometri. Di Balvano le guide nemmeno citano il nome; è uno dei tanti modesti agglomerati di case dell'Italia del sud privo di importanza storica o economica o artistica; come Bella Muro, il paese unito a Balvano da un quarto d'ora di treno.

All'una meno dieci della notte fra il 2 e il 3 marzo del 1944, proprio da Balvano partì, diretto a Potenza, il treno merci straordinario n. 8017, che era giunto da Napoli quaranta minuti prima. Era un treno lunghissimo e pesante, composto di una cinquantina di vagoni; lo trainavano due locomotive. Nei cinque carri che non erano carichi di merci, erano ammucchiati più di seicento persone: si trattava per lo più di piccoli contrabbandieri, provenienti dai comuni che si addensavano nei dintorni di Napoli; in quei tempi di carestia costoro si recavano in Lucania, e nelle campagne acquistavano generi alimentari: farina, uova, castagne, legumi, che poi rivendevano a Napoli, ricavandone quel tanto che bastava per tirare avanti alla meno peggio.

L'Italia del sud era allora controllata dall'A.M.G.O.T. , organo degli alleati come tutte le altre amministrazioni, anche le ferrovie dipendevano da esso. La linea Napoli-Potenza era stata dichiarata di carattere militare; e su di essa circolavano ogni settimana solo due treni per viaggiatori, assolutamente insufficienti al bisogno. Avveniva così che anche i treni merci militari venissero presi d'assalto; gli alleati chiudevano un occhio: in fin dei conti, quella povera gente doveva pur guadagnarsi da vivere in qualche modo. Il personale italiano di scorta ai treni militari non era autorizzato a percepire somme dai viaggiatori clandestini; ma questa disposizione non sempre veniva rispettata; prova ne è il fatto che presso l'avvocato Ranucci si trovano due biglietti, quelli n. 25628 e 25105, per l'importo complessivo di 283 lire, rilasciati appunto dai funzionari italiani che scortavano il treno 8017.

Sulla linea Napoli-Potenza le gallerie si succedono con molta frequenza: fra Balvano e Bella Muro ve ne sono tre; due sono molto brevi; la terza, quella detta «delle Armi», è lunga quasi tre chilometri, stretta, tortuosa, e in essa la pendenza del terreno raggiunge il ventinove per mille; una pendenza facilmente superabile solo per convogli piuttosto leggeri.

Il merci 8017 superò senza difficoltà le prime due gallerie. I passeggeri, ammucchiati l'uno sull'altro, dormivano pesantemente; si sentiva solo il monotono ansimare delle locomotive, dai cui fumaioli un denso fumo nero saliva verso l'alto, confondendosi, nella notte oscura e umida, colle nuvole basse. Anche quando venne imboccata la galleria delle Armi nulla lasciava prevedere la tragedia, pur così imminente: fu solo dopo un migliaio di metri che il personale di macchina si avvide che il treno non riusciva, per il suo eccessivo peso, a superare la pendenza. Le ruote avevano incominciato a girare a vuoto sui binari umidi; lentamente il treno prese addirittura a scivolare all'indietro.

[Fotografia: 521 furono i morti nella tragica galleria. 293 non poterono nemmeno essere identificati. Queste rarissime fotografie furono scattate alla stazione di Balvano, dove i poveri corpi furono ammucchiati. In quel cimitero non c'era spazio per tanti cadaveri. Oggi lo Stato ha deciso di considerare i reduci e i parenti dei morti come danneggiati di guerra, e di dare loro un indennizzo]

[Fotografia: Luigi Cozzolino, di Resina, uno dei pochissimi scampati alla morte nella galleria di Balvano. Un figlio gli morì a fianco. Da allora, ha perduto la memoria. Il disastro ferroviari, il più grave che si sia verificato in Italia, avvenne il 3 marzo 1944]

Quello dovette essere, per i macchinisti, un momento molto grave. Essi bloccarono i freni, e il treno si fermò nell'interno della galleria, con l'ultimo vagone che ne usciva fuori per metà. Fu allora che i macchinisti presero una decisione che doveva rilevarsi fatale: quella di aumentare la pressione, nella speranza di poter riprendere la marcia in avanti. Le caldaie bruciarono violentemente il cattivo carbone jugoslavo col quale venivano allora alimentate, un carbone che sviluppava una deficiente forza motrice; le locomotive, che non erano in perfetta efficienza, non si mossero di un metro; e il fumo del carbone si sparse per la galleria, penetrando in tutti i vagoni.

Quel fumo conteneva una elevatissima quantità di monossido di carbonio, un veleno ad azione rapida; i primi a esserne colpiti furono i macchinisti e i fuochisti, che furono rinvenuti convulsamente abbracciati alle leve di comando; poi quella morte silenziosa si insinuò nei polmoni dei passeggeri, che passarono così, senza nemmeno avvedersene , dal sonno alla morte. Solo una ottantina di persone, tra quelle che occupavano l'ultimo vagone, che era rimasto, come sappiamo, all'imbocco della galleria, si salvarono: ma anche esse furono intossicate dal gas, e caddero in un pesante letargo; soltanto un frenatore, Michele Palo, che si trovava nella piattaforma posteriore, ed era sveglio, riuscì a precipitarsi a terra, appena avvertì le prime mefitiche esalazioni; egli si avviò verso Balvano, colla testa annebbiata, ansimante di terrore, e, dopo aver percorso quasi tre chilometri lungo i binari, sulle mani e sulle ginocchia, ne raggiunse la stazione.

La distanza fra Balvano e Bella Muro è di soli sette chilometri; il merci 8017 avrebbe dovuto impiegare, per superarla, una ventina di minuti; era invece rimasto fermo per più di tre ore nella galleria della morte, prima che Michele Palo apparisse come un fantasma lacero ai funzionari della stazione di Balvano. Come mai, durante tutto questo tempo, i funzionari della stazione di Bella Muro, che avevano ricevuto all'una meno dieci da Balvano il segnale di partenza del treno, e non lo avevano visto giungere non pensarono di chiederne notizia? A quanto pare, fu il capostazione di Balvano, Giuseppe Salonia, il primo ad accorgersi che qualcosa non andava, trascorse quasi due ore dalla partenza del merci. Salonia cominciò a preoccuparsi per il fatto che da Bella Muro non gli avevano spedito il regolamentare segnale di arrivo del treno; avvertì il capostazione titolare Maglio; e questi decise di dare inizio, con una locomotiva di riserva, a una esplorazione della linea. Passò ancora del tempo mentre si cercavano gli attrezzi necessari per avventurarsi a piedi nella galleria, e si tirava fuori dal deposito una vecchia locomotiva; nel frattempo, giunse a Balvano il frenatore Paolo. Il pover'uomo non ebbe la forza di proferire nemmeno una parola; ma dal suo aspetto tutti compresero che era accaduto qualcosa di terribile. La locomotiva si avviò lentamente verso Bella Muro; quando giunse all'imbocco della galleria delle Armi, spuntava in cielo un'alba grigia e fredda: nel tremendo silenzio di morte che lo circondava, il merci 8017 si presentò agli occhi di quelli che erano andati a cercarlo come un incredibile, allucinante spettacolo.

Il lunghissimo convoglio, che adesso era solo un'immensa bara, fu rimorchiato nella stazione di Balvano. Qui, alla presenza del sindaco e dei carabinieri, furono scaricati sul marciapiede della stazione i morti e i pochi superstiti. I morti erano 521; 193 di essi sfuggirono a ogni tentativo di identificazione. Dei sopravvissuti, nessuno seppe dire cosa era accaduto; Luigi Cozzolino, di Resina, rimase una settimana fra la vita e la morte; quando si riebbe, la sua memoria era definitivamente scomparsa; no seppe, e forse non lo saprà mai, che un suo figlio di dodici anni gli era morto accanto.

Balvano ha solo duemila abitanti: nel suo cimitero non v'era spazio per tanti cadaveri; così si provvide a seppellire i poveri corpi in tre grandi fosse, scavate nelle adiacenze della stazione; una di esse venne riservata alle donne; su tutte fu buttata, fino a ricoprirle, della calce viva.

Fu subito aperta un'inchiesta; i periti accertarono le cause del disastro, quelle cui abbiamo già accennato. Poi, sulla cosa scese il silenzio; l'Italia era in quei tempi preoccupata per altri tragici eventi, quelli della guerra.

Passarono due anni, nel 1946 la moglie di Luigi Cozzolino si rivolse all'avvocato Ranucci, consigliere comunale di Napoli; e l'avvocato accertò l'esistenza di una circolare indirizzata dal Ministero delle Comunicazioni al Compartimento di Napoli, colla quale, in data 15 febbraio del 1944, si rendeva noto che l'esercizio della linea Napoli-Potenza veniva affidato, da quel giorno, alle ferrovie civili italiane, sotto la sorveglianza delle autorità alleate; pensò quindi che le Ferrovie dello Stato dovessero rispondere del disastro; e le citò per i danni. Apparve subito chiaro che era però impossibile stabilire se gli occupanti del treno della morte fossero muniti di regolare biglietto di viaggio, oltre i due che Ranucci riuscì a recuperare; inoltre, le vittime avevano preso abusivamente posto su un treno merci. La responsabilità della tragedia non si poteva far risalire, sic et simpliciter, alle Ferrovie dello Stato; comunque, la prima sezione del tribunale di Napoli risolse, nel maggio del 1950, alcune questioni pregiudiziali, e dichiarò la competenza della Magistratura ordinaria di Napoli e emettere un giudizio sul grave accaduto.

Qualche mese fa al tribunale di Napoli giunse una comunicazione del Ministero del Tesoro che rendeva noto di essere disposto a considerare i reduci e i parenti dei morti come danneggiati di guerra, a norma della legge n. 10 del gennaio 1951. La proposta del Ministero del Tesoro venne accettata dalle parti lese, che preferirono rinunziare a un processo i cui elementi non si presentavano del tutto favorevoli; essi riceveranno quindi un indennizzo ragionevole; ma nulla basterà a cancellare dalla loro vita le terribili conseguenze di quel viaggio che, nella notte fra il 2 e il 3 marzo del 1944, si concluse, per 521 persone, con l'arrivo a una stazione estrema.

Giulio Frisoli