Bibliografia Ferroviaria Italiana

 

Treno 8017. Il più grave disastro ferroviario italiano

 

Articolo di Cenzino Mussa, pubblicato in "Famiglia Cristiana", 4 marzo 1979, pagine 40-46

 


 

Nel marzo del 1944 più di 500 persone che erano salite su un convoglio merci perirono avvelenate dall'ossido di carbonio in una galleria tra Balvano e Bella-Muro in Lucania. Le circostanze in cui avvenne questa sciagura non sono state mai chiarite completamente. Le responsabilità del comando d'occupazione Alleato.

 

Rievochiamo la più spaventosa sciagura ferroviaria italiana
E la morte scese sul treno

di Cenzino Mussa
foto di Angelo del Canale

 

Balvano, febbraio

"L'agenzia Reuter comunica da Napoli che 500 italiani sono periti venerdì mattina per asfissia in una galleria ferroviaria dell'Italia meridionale. Altre 49 persone sono degenti all'ospedale. Per mancanza di treni viaggiatori un gran numero di persone era salito su un merci diretto a oriente, stipando i carri aperti che lo componevano. Nell'attraversare una galleria, il treno che già procedeva assai lentamente, rallentava ancora la marcia, sicché il denso fumo che ingombrava la galleria stessa in seguito al passaggio di altri convogli provocava la soffocazione della maggior parte dei disgraziati viaggiatori". (Dal Corriere della Sera, 6 marzo 1944).

Un titolo in colonna, ventidue righe di giornale per cinquecento morti. Poi il silenzio. È la più grave sciagura ferroviaria italiana, ma ancora oggi sfugge ad ogni statistica. Nessuno sa con esattezza il numero delle vittime, nessuno potrebbe giurare sulle responsabilità. Le montagne della Lucania e "ordini superiori" si accordarono per seppellire nel silenzio una storia fatta di fame e di paura. A trentacinque anni di distanza riaffiorano frammenti di testimonianze e indiscrezioni sulle inchieste che allora furono condotte cautamente e poi archiviate. Abbiamo sfogliato documenti "segreti" quasi consunti dal tempo, abbiano ascoltato superstiti e soccorritori di quel treno maledetto.

È un giallo angoscioso che comincia una sera piovosa del '44, l'anno più nero del secolo. Gli alleati sono fermi a Cassino e combattono sul fronte di Nettuno. Non si canta più "Vincere" da quando in montagna "fischia il vento", ma si continua a morire di qua e di là della Linea gotica. Scontri, bombardamenti, fame, crudeltà: sono gli spettri di questi mesi.

Ha l'aria di essere uno spettro anche Mussolini. Abita a Villa Feltrinelli, a Gargnano. Il primo marzo, nel sesto anniversario della morte di D'Annunzio, va a rendere omaggio alla tomba del "compagno d'arme". I giornali del Nord gli dedicano un titolo a cinque colonne. Bastano cinque righe per "un altro bombardamento su Roma". Il giorno dopo, Goebbels lancia un proclama: "La vittoria tedesca rappresenta una certezza". Altre notizie sul Corriere (30 centesimi, due pagine) del 2 marzo: pioggia di bombe su Londra, "infruttuosi attacchi dei bolscevichi sul fronte orientale", catturati due ladri di biciclette, si autorizza ad attingere l'acqua salsa del mare per usi alimentari. Sugli annunci pubblicitari si legge: bar centralissimo, forti incassi, cedesi, un milione; sinistrato acquista armadio occasione; privato vende scarpe seminuove. Le scarpe hanno suole vibram, a "carro armato"; molti devono ricorrere a ritagli di copertone. Al posto della lana, è in commercio un tessuto autarchico che punge come le ortiche; la biancheria è di rayon. Con le tessere annonarie è quasi impossibile vivere. Si deve ricorrere alla "borsa nera". Così i fagioli da 5,24 lire al chilo salgono a 20 lire; un litro d'olio costa cento lire contro le 14 del prezzo ufficiale.

I borsari neri fanno la spola tra la campagna e la città. Qualcuno ha l'autocarro a carbonella. I tendoni nascondono a fatica sacchi di farina e damigiane di vino. Gli italiani del Nord dormono male per le incursioni di "Pippo", un monomotore che sgancia bombe e mitraglia a bassa quota. C'è chi preferisce il cinema ai rifugi antiaerei e va a vedere Luisa Ferida e Gino Cervi in Tristi amori, oppure Alida Valli e Amedeo Nazzari in Apparizione. L'insonnia è provocata anche dalla fame. A Napoli, il Vesuvio fuma. I1 15 febbraio è distrutta l'abbazia di Montecassino. Agli inizi di marzo scatta l'operazione Strangle, che intende spezzare i collegamenti tra il Nord e il Sud dell'Italia. Gli scali ferroviari di Roma, Padova, Verona, Bologna, Vicenza, Milano e Bolzano sono fra gli obiettivi più colpiti. Le ferrovie al Sud sono uno sfacelo. Dal primo ottobre dell'anno precedente, quelle del compartimento di Napoli sono state assunte direttamente dal Governo militare alleato (A.M.G.) che le terrà in gestione sino a luglio del '44. La direzione è affidata al 727º battaglione ferroviario.

Il treno merci n. 8017, su ordine del Comando alleato, era diretto a Potenza per caricare legname già preparato dall'American Corps of Engineers, necessario per la ricostruzione di ponti nella zona di combattimento. È il tramonto, quando si muove dal piazzale Garibaldi. Un convoglio lunghissimo: 47 carri, una ventina dei quali scoperti. Borsari neri, impiegati e studenti lo prendono subito d'assalto. È proibito salire sui merci, ma i tempi sono quelli che sappiamo: si chiude un occhio, anche due. Il mercato nero, visto con lo stomaco pieno, è deprecabile; visto con il terrore della farne, lo è molto meno. E poi la maggior parte dei viaggiatori non sono "borsari neri", ma poveretti che vanno a cercare cibo per le loro famiglie. Alcuni sono persone costrette a viaggiare e che non hanno trovato altri mezzi.

Napoli scompare in una schiuma di luci riflesse nel mare color lavagna. Stazione per stazione l'8017 calamita e risucchia file pazienti di viaggiatori, ai quali nessuno si oppone, neppure la scorta militare, composta da un ufficiale e sette soldati italiani. I fuochisti buttano a palate il carbone sotto la caldaia, e la corsa affannosa riprende. Nocera, Salerno, Battipaglia. Alle 19.12 il treno arriva a Eboli, dove salgono cento abusivi, tra gli altri il professor Vincenzo Iuta, dell'Università di Bari, con una decina di studenti.

E via arrancando nella notte umida e fredda. Sicignano, Buccino, Romagnano al Monte, sotto il suo pugno di case inchiodato alla roccia nella paurosa fenditura che s'apre sull'ultima valle del Salernitano, tredici chilometri prima della "galleria delle armi" che diventerà la "galleria della morte".

A Romagnano il treno ha almeno 650 viaggiatori clandestini. Qui viene agganciata in testa una seconda locomotiva, del tipo 476. di alta montagna, uguale a quella di spinta. Entrambe sono alimentate da carbone iugoslavo, fornito dagli stessi Alleati, di scarso potere calorifico (carbone non maturo) con alta percentuale di scorie. È un tipo di carbone che nella combustione sprigiona gas letali, come l'ossido di carbonio.

Alle 23.40 il treno lascia Romagnano. Alle 0.12 si ferma sotto la galleria, cento metri prima d'una sperduta stazioncina di montagna, Balvano. Un treno che precede il merci sull'unico binario lamenta un guasto alla locomotiva, così l'8017 aspetta d'aver via libera per metà ancora nella galleria dove stagna il fumo. Non tira un alito di vento, comincia a nevicare. Per i trentotto minuti di attesa, i passeggeri respirano fumo e gas. I più dormono, ignari del pericolo, vinti dalla stanchezza. Finalmente, alle 0.50, i due macchinisti allentano i freni, spingono le leve dell'acceleratore e il convoglio, superata la stazione, si infila nella galleria in salita. Il capostazione di Balvano, Vincenzo Maglio, batte al telegrafo il segnale di "partito" al suo collega della stazione successiva, Bella-Muro.

Tra Balvano e Bella-Muro ci sono otto chilometri. I binari s'insinuano fra gole aspre, solcate da un torrente tortuoso, il Platano. L'intero tratto è un susseguirsi di gallerie e viadotti. Il merci supera la prima galleria, poi la seconda, quindi un tratto all'aperto, in una forra, e infine ecco la "galleria delle armi", lunga 1692 metri, con una pendenza che raggiunge il 13 per mille. Il treno percorre i primi duecento metri, poi le ruote non mordono più le rotaie, girano a vuoto. Altro carbone, altra pressione nelle caldaie, ma sui binari viscidi di neve, le ruote vorticano come girandole. L'8017 arretra di qualche metro (quanto basta perché gli ultimi tre vagoni escano all'aria aperta all'imbocco della galleria) e si ferma di nuovo, definitivamente. Tutto il resto è congettura. Molti indizi lasciano perplessi. La locomotiva di testa viene trovata con la leva di comando sulla retromarcia, la seconda con la leva di comando spinta in avanti. Evidentemente quando il treno s'era fermato, i due macchinisti, che non potevano comunicare fra di loro, la pensavano in modo fatalmente diverso sul da farsi. Facile immaginare la scena. Come un rettile mostruoso, il fumo e il gas serpeggiano a ritroso nella galleria e uccidono silenziosamente centinaia di persone. Un terrore senza bombe, senza grida, con cinque, sei cori di rantoli soffocati. La maggior parte dei viaggiatori passa dal sonno alla morte.

Restano alcune testimonianze. In un carro c'è Luigi Cozzolino. Dorme accanto al figlio dodicenne. Ad un tratto si sveglia e s'accorge che il bambino è morto. Rimane inebetito dall'orrore, incapace di aprir bocca, poi si lascia cadere dal treno e si trascina all'aria aperta.

Ciro Pernace aveva 19 anni e faceva il contadino a Torre del Greco. Su quel treno era salito a Salerno. Andava a Bella-Muro in cerca di farina, o di «qualsiasi altra cosa da mettere sotto i denti». Racconta: «Eravamo cinque fratelli, la fame ci faceva sragionare, avevamo mangiato tutto quello che c'era, persino i semi. Su quel treno m'ero addormentato con una mantellina militare avvolta sulla testa. Mi sono svegliato all'ospedale di Potenza. Mi dissero che la mantellina aveva fatto da filtro. Non ricordo altro. Da allora la capa non funziona più».

Sull'undicesimo vagone, ben dentro la galleria, viaggiava Giuseppe De Venuto, un operaio delle ferrovie che faceva da frenatore. Si stupì nel sentire il treno fermarsi, arretrare a scossoni e fermarsi di nuovo. Scese dal treno, si diresse verso l'imbocco del tunnel dove trovò il frenatore Roberto Masullo, stordito dal gas. Capì che doveva avvertire subito il capostazione di Balvano. Semisvenuto, nauseato dal fumo, l'operaio cominciò ad avanzare carponi lungo i binari. Un altro ferroviere lo aveva preceduto: Michele Palo. Nella cabina di coda stava bruciando stoppie e giornali per scaldarsi, quando si sentì soffocare. Si rese conto della tragedia, chiamò qualche nome e corse. Ma le forze non gli bastarono, e soltanto dopo due ore poté scorgere le luci della stazione di Balvano. Stava annaspando un'altra locomotiva in pressione. Avevano già saputo. Prima di svenire disse: «Là sono tutti morti». Erano le tre passate. La locomotiva sotto pressione, staccata per ordine di Giuseppe Salonia, il vicecapostazione, apparteneva ad un altro merci (8025) che era giunto in orario, ma aspettava il permesso di proseguire per Bella-Muro.

Di tutte le cose incredibili di quella notte incredibile nulla lo è di più del tempo che occorse ai capistazione di Balvano e di Bella-Muro per chiedersi che fine avesse fatto il merci n. 8017. Soltanto intorno alle 2.50 Salonia aveva ricevuto una telefonata dal collega che chiedeva spiegazioni. Aveva risposto che sarebbe andato di persona a rendersi conto dell'accaduto. Alle 5.10 il merci 8017, diventato un'immensa bara, era rimorchiato a Balvano. In un vagone i corpi delle vittime erano talmente ammassati che non si riuscì a far scorrere lo sportello. Bisognò squarciarlo. I volti erano sereni. Un colonnello dell'esercito americano raccontò in seguito: «Non mostravano il minimo segno di sofferenza. Molti erano seduto con il busto eretto o nella posizione di chi dorme tranquillo».

Balvano, 2480 abitanti, 32 chilometri da Potenza, 425 metri d'altitudine, è un paesino povero e bello, fra querce e ulivi, incassato fra le montagne. Un paese di emigranti (più di mille persone se ne sono andate dal '44) e di gente generosa. Quel mattino di marzo don Pacelli, il vecchio parroco, suonò le campane e uomini e donne scesero di corsa verso la stazione. Allinearono i cadaveri sulla pensilina, portarono i primi soccorsi a quelli che erano ancora in vita. C'era il medico condotto, Orazio Pacella, che adesso ha ottant'anni ed è malato, ma non può dimenticare quel giorno. Racconta: «Un silenzio irreale, la neve e tutti quei poveretti. Mostrai ai ferrovieri e ai contadini come si fa la respirazione bocca a bocca. Avevo solo cento fiale di adrenalina, non potevo permettermi di sbagliare. Saltavo da una vettura all'altra, cercavo un cenno di vita nei riflessi oculari, poi facevo l'iniezione al cuore. Nessun altro medico per tutta la mattinata. Poi arrivarono le autorità da Potenza con una dottoressa americana. Allontanarono tutti, anche me. Ne avevo salvati 51, mi restavano 49 fiale, avrei potuto salvarne altri. Protestai, Dio mio, fatemi salvare altre vite. Mi cacciarono. E questo è il tormento che mi accompagna da quel giorno. Dissero che qualche vittima era stata spogliata delle poche cose che aveva. Non è vero, non c'erano sciacalli fra di noi. C'era soltanto brava gente che dava una prova di solidarietà umana".

Le vittime furono dapprima trasportate nella ex casa del fascio, poi sepolte in tre fosse comuni nel piccolo cimitero del paese. Quanti i morti? Su alcuni documenti si legge: 425. Su altri, 521. Su un vecchio registro comunale c'è l'elenco dei corpi identificati: 429. La cifra più probabile è quella scolpita su una lapide al cimitero di Balvano: 509, e cioè 408 uomini e 101 donne.

 

Fu ritenuto un evento bellico

 

Dopo una tortuosa e lunga vicenda giudiziaria, i parenti delle vittime hanno ottenuto un risarcimento (circa trecentomila lire) con una sentenza che ha inserito la vicenda del treno n. 8017 tra gli "eventi bellici" e ha fatto valere la legge speciale (N. 10, del 9 gennaio 1951) di cui è competente il Tesoro e in base alla quale "viene concessa un'indennità per danni immediati e diretti causati da atti non di combattimento, dolosi o colposi, delle Forze armate alleate".

È dunque agli Alleati che si deve attribuire l'intera responsabilità della tragedia? In una pratica ingiallita dell'Avvocatura di Stato è riportata la deposizione di un funzionario in carriera all'epoca della Amgot, dove si dice: "Tutti gli ordini relativi all'organizzazione, al movimento e ai servizi giungevano direttamente dal MRS (Military Railways Service), ossia dal generale Gray e dal col. Horek". Nella stessa pratica è riportata la deposizione dell'allora sindaco di Balvano. Nella sua qualità di ufficiale di pubblica sicurezza, il sindaco aveva iniziato un'inchiesta per accertare le responsabilità del disastro: ne fu distolto da un perentorio ordine delle autorità alleate. Ci furono altre indagini, l'ultima condotta dal giudice del tribunale di Potenza. Ma nel '46 l'intera pratica veniva archiviata, non "essendo stati riconosciuti gli estremi del reato". Se una donna, Luisa Cozzolino vedova Palombo, non avesse iniziato un'azione per risarcimento danni, citando le Ferrovie dello Stato, forse nessuno avrebbe più sentito parlare dei 500 morti nella "galleria delle armi". Luisa Cozzolino fu la prima. Poi presso il tribunale di Napoli, alla sua si aggiunsero le citazioni di trecento famiglie: per la perdita del marito, del fratello, della sorella, della madre, del padre, del figlio, della figlia. Tutti deceduti sul treno n. 8017.

L'assassino fu il carbone? In una relazione inviata dal ministro dei Trasporti a quello del Tesoro, nel gennaio del 1952, si legge: "Il treno si fermò perché il macchinista fu colpito dalle tossiche esalazioni dei prodotti gassosi della combustione del carbone, particolarmente ricco di ossido di carbone. In proposito vale notare che, da parte del Comando alleato, venne imposto l'uso di tale carbone, assolutamente inadatto per le locomotive allora in esercizio". Anche gli Alleati condussero una inchiesta (affidata ai capitani Osborn e Gilberston dell'armata francese), ma i risultati non furono mai resi noti. Della tragedia si occupò il Times nel '51, [In realtà si trattava del Time] e scrisse che "il Governo alleato si sforzò di occultare l'incidente per evitare l'effetto deprimente sul morale degli italiani".

La storia del treno maledetto non finisce qui. Per molti anni vedove e orfani non hanno avuto neppure una tomba sulla quale piangere. Adesso nel cimitero di Balvano c'è una cappella di marmo fatta costruire, per tutte le vittime, da un uomo generoso. Si chiama Salvatore Avventurato, ha 49 anni, gestisce un distributore di benzina a San Giorgio a Cremano, abita a Torre del Greco insieme con la moglie e tre figli. Su quel treno, Avventurato ha perso il padre Agostino, il fratello Vincenzo e uno zio, Antonio Luna. Anche loro erano saliti sul merci 8017 per sfamare le famiglie. Salvatore Avventurato è uno che la fame l'ha sofferta davvero. E dopo la guerra ha fatto mille mestieri, lavorando giorno e notte. A sua madre aveva promesso la tomba per quei poveretti. L'ha costruita un po' per volta, fra mille difficoltà. "Si posavano i fiori in terra, si camminava sui morti, era straziante. Almeno riposino in pace...".

Cenzino Mussa

 

Fotografie:
1) Una rara e impressionante immagine delle vittime della sciagura ferroviaria del marzo del 1944: i corpi sono stati trasportati dalla galleria al marciapiede della stazione di Balvano.
2) Salvatore Avventurato davanti alla piccola cappella che ha fatto costruire nel cimitero di Balvano.
3) Orazio Pacella, il medico condotto di Balvano che prestò i primi soccorsi.
4) Ciro Pernice con due familiari: deve la vita alla mantellina nella quale si era avvolto durante il viaggio.