Bibliografia Ferroviaria Italiana

 

Treno 8017. Il più grave disastro ferroviario italiano

 

Articolo di Nicola Raimo, pubblicato in "Strade Ferrate", Novembre 1980, pagine 33-37

 


 

Quella lunga notte del '44

 

Nicola Raimo

 

Sono trascorsi circa quarant'anni dalla spaventosa catastrofe del treno 8017, che ebbe il suo epilogo nella Galleria delle Armi, sulla Sicignano degli Alburni-Potenza. Lungi da ogni morboso compiacimento nell'indugiare su un così doloroso episodio, la Redazione di «Strade Ferrate» ha ritenuto opportuno contribuire a ristabilire la verità storica su un avvenimento, che, complice anche la censura del periodo bellico, è rimasto per lungo tempo avvolto nel mistero. Il treno 8017 non deragliò, non ebbe uno scontro, non subì incendi: eppure sotto quella che ancor oggi i ferrovieri chiamano la «galleria della morte» perì un numero di persone superiore a quello di ogni altra sciagura ferroviaria mai avvenuta: oltre cinquecento. Un potenziale assassino c'era, in verità, ma assolutamente insospettabile: viaggiava sul tender stesso delle locomotive, ed era lo scadente carbone utilizzato in quegli anni. Il caso fece il resto, provocando una fatale divergenza di vedute fra i macchinisti delle due locomotive nel momento cruciale di quella notte del '44.

Il nostro collaboratore Nicola Raimo, avvalendosi anche della sua personale conoscenza degli unici due ferrovieri sopravvissuti, ha ripercorso per noi con competenza e cognizione di causa il succedersi dei fatti che determinarono l'immane tragedia. Pubblichiamo il suo racconto, così come egli l'ha raccolto dalla viva voce dei superstiti.

 

***

 

Era il 2 marzo del 1944. La guerra era da poco finita nel Sud della penisola, ed anche in Campania. Da Napoli, quasi tutti i giorni si formava un treno merci il cui numero di identificazione era 8017: era un treno dispari itinerante, con destinazione Potenza. Quel giorno, era formato da quarantasette carri, in parte chiusi, in parte pianali, in parte alte sponde. Alcuni erano carichi, ma la gran parte erano vuoti, tanto che ben presto vi si stiparono centinaia di persone: tutti viaggiatori abusivi, che si recavano in quel di Potenza e provincia per acquisti di derrate alimentari, per lo più da barattare con merci di provenienza americana che a Napoli non mancavano, quali sigarette, caffè, indumenti.

L'8 settembre 1943 non era lontano, e nonostante gli aiuti americani, a Napoli e in tutta la Campania non c'era praticamente di che sfamarsi, mentre in Lucania vi era scarsezza di generi di conforto, vestiti, ecc. Mezzi pubblici e privati non ne esistevano più o quasi, perché requisiti nel corso della guerra, e l'unico mezzo di trasporto rimaneva il treno: merci o viaggiatori che fosse, qualunque convoglio era preso d'assalto. Il governo alleato aveva fatto espresso divieto di servirsi dei treni merci, ma la necessità era tale che molti rischiavano anche severi provvedimenti.

Il treno 8017 giunse a Salerno con in testa un E. 626: qui si provvide al cambio di trazione, essendo la linea Battipaglia-Potenza-Taranto non elettrificata. Il Deposito Locomotive di Salerno si incaricava allora del servizio fino a Potenza e sulla diramazione Sicignano degli Alburni-Lagonegro. La locomotiva titolare dell'8017 era quella sera del 2 marzo la 476.038, una delle trentuno unità di stanza a Salerno a partire dagli anni venti.

L'8017 partì da Salerno già carico di viaggiatori abusivi: a Battipaglia la polizia militare americana ne fece scendere alcuni (che avrebbero poi ringraziato la loro buona stella), ma nelle stazioni seguenti (Eboli, Persano, ecc.) molti altri salirono sul convoglio.

Frattanto era giunta a Battipaglia, poco prima dell'arrivo dell'8017, un'altra locomotiva diretta a Potenza come O. L. («orario libero») per effettuare un altro merci di ritorno a Napoli: era la 480.016. Le locomotive del gruppo 480 avevano prestato servizio dapprima sulla Porrettana: quando questa linea fu elettrificata in trifase, esse furono inviate ovunque servissero macchine di potenza ragguardevole (Brennero, Sicilia, ecc.). A Salerno ce n'erano sei unità, e precisamente la 001, 003, 006, 007, 008 e 016.

Il Dirigente Centrale di Battipaglia pensò allora, per non effettuare due treni sullo stesso itinerario e ben sapendo che l'8017, data la pesante composizione, avrebbe richiesto da Baragiano il rinforzo in coda, di disporre la 480 in doppia trazione in testa all'8017.

Il convoglio ripartì dunque alla volta di Eboli con in testa la 480.016, su cui viaggiavano il macchinista Espedito Senatore («un grande macchinista», per unanime ricordo di chi lo conobbe) e il fuochista Luigi Ronga. Alla guida della 476.038 vi era invece il macchinista Matteo Gigliano, coadiuvato dal fuochista Rosario Barbaro. Da calcoli postumi si può presumere che il convoglio ospitasse oltre cinquecento viaggiatori abusivi.

Era da poco passata la mezzanotte, quando il convoglio si fermò in una sperduta stazioncina fra le montagne, il cui nome è destinato a rimanere negli annali ferroviari: Balvano La stazione sorge in posizione estremamente isolata proprio fra due gallerie (quella di Romagnano e quella delle Armi): il centro abitato di Balvano dista oltre tre chilometri. Subito dopo Balvano, la linea corre a mezza costa lungo la valle del Platano, e la Galleria delle Armi segue lo stesso tortuoso percorso: lungo i 1500 metri del tunnel non vi è un solo rettifilo. Solo alla fine, essa presenta per una lunghezza di poche decine di metri una serie di fornici che si affacciano sul Platano. Non essendovi pozzi di areazione, la galleria, lunga e tortuosa, non aveva (e non ha ancor oggi, anche con la trazione Diesel) una sufficiente ventilazione.

Alle 0.50 il convoglio ripartì da Balvano. Il capostazione telegrafò il segnale di partito al collega della stazione successiva, Bella-Muro, che l'8017 avrebbe dovuto raggiungere in circa 20 minuti. Ma da Bella-Muro il giunto non arrivò mai.

L'8017 imboccò la galleria a circa 15-20 km/h (secondo i ricordi del mio amico Ronga), procedendo su una livelletta del 13 per mille, quando inspiegabilmente le sale delle due locomotive cominciarono a perdere aderenza, nonostante i due macchinisti scaricassero abbondantemente sabbia sulle rotaie.

A questo punto, una parentesi è d'obbligo. Prima dell'8 settembre 1943 il carbone utilizzato era di provenienza tedesca; poi, per la ben nota situazione bellica, cominciò ad essere fornito dagli americani, che lo facevano giungere a Salerno con la navi Liberty. Era un carbone di piccola pezzatura contenente molto zolfo: ad avviso dell'amico Ronga la sciagura deve appunto imputarsi alla pessima qualità del carbone.

Ma torniamo agli avvenimenti. I gas di combustione avevano saturato l'aria della galleria a tal punto - ricorda Ronga - che la fiaccola ad olio vegetale posta sugli strumenti si spense, e tutto piombò nel buio. Il treno era giunto a circa metà della galleria delle Armi: le sale delle locomotive, complice anche la forte umidità di quella notte di marzo, continuavano a slittare, mentre i colpi di scappamento, sempre più ravvicinati, risuonavano sotto la volta della galleria come cannonate.

Ronga fu preso da un senso di nausea: sportosi dalla piattaforma nell'intento di trovare una boccata d'aria ancora respirabile in quell'inferno di fumo e di gas, perdette di colpo i sensi e precipitò dalla locomotiva nella sottostante cunetta di scolo dell'acqua, che fiancheggiava il binario. Rimase lì, svenuto, perdendo sangue da ferite alla testa e alle braccia.

Il macchinista Senatore si trovò improvvisamente solo: colpito dai gas venefici, si accasciò sul posto di guida - dove poi fu trovato - lasciando il regolatore aperto e la leva d'inversione tutta avanti: di fronte all'imprevista emergenza, aveva cercato di richiedere alla macchina il massimo sforzo.

Appena un mese prima, un incidente mortale era occorso al macchinista Vincenzo Abbate nella galleria tra Picerno e Tito, sempre sulla stessa linea. Trovandosi con la sua 476 in servizio di spinta a un treno merci già in doppia trazione, l'Abbate, nell'intento di respirare aria pulita, aveva alzato la ribalta esistente tra macchina e tender e si era steso bocconi: ma, colto da improvviso svenimento, era caduto riverso e aveva trovato orribile morte col capo schiacciato tra macchina e tender; il tutto sotto lo sguardo atterrito del suo fuochista, Giovanni Ariano, che nulla aveva potuto fare data la fulmineità dell'accaduto.

Forse perché memore di quell'incidente, il macchinista della 476, Gigliano (anch'egli macchinista di grande esperienza, un «big» della trazione a vapore) cercò invece disperatamente di retrocedere. Rovesciò la leva d'inversione «tutta indietro», e questo fu il momento culminante della tragedia. Data la potenza della 476 e con l'aiuto del peso stesso del treno, Gigliano sarebbe sicuramente riuscito a portare fuori della galleria il treno, anche se la 480 era rimasta disposta per la marcia avanti e col regolatore aperto: ma non ne ebbe il tempo, forse per pochi, decisivi secondi. Sopraffatto dai gas, non riuscì ad aprire il regolatore e perì anche lui al posto di comando insieme al suo fuochista.

Come ben ricordo per avervi più volte viaggiato, i comandi della 476 erano a destra: il regolatore aveva la leva a sciabola e l'asta di comando scorreva in due grossi anelli, la leva d'inversione era a vite senza fine, ma a manovella. È bene anche dire che la valvola del regolatore non era la «Zara», ma aveva invece due aperture, la prima e la seconda, con due piastre a slitta scorrenti l'una sull'altra in modo tale che aprendo la prima, restava chiusa la seconda e viceversa. Questa valvola veniva continuamente lubrificata da un oliatore funzionante a vapore, posto nel duomo, che era assai poco capiente, tanto da dover essere rifornito molto frequentemente. Nonostante tale lubrificazione, il comando - lo ricordo bene - era quanto mai duro sia per l'apertura che per la chiusura: un particolare questo che, con il macchinista allo stremo delle forze, ebbe forse la sua importanza in quella tragica notte.

Col personale di condotta ormai impotente, l'ossido di carbonio contenuto nei gas di combustione saturò completamente la galleria, conducendo silenziosamente all'asfissia i viaggiatori, per lo più addormentati. Dei ferrovieri, insieme a Ronga si salvò soltanto il frenatore di coda Roberto Masullo. L'8017 aveva infatti frenatura mista: metà col freno continuo Westinghouse e metà a mano. Masullo occupava appunto la garitta del carro di coda, rimasta per fortunata coincidenza, insieme ad altri due carri, fuori della galleria. Quando la sosta si prolungò al di là del normale, Masullo scese e risalì per qualche decina di metri il tunnel e, resosi immediatamente conto della tragedia, fu l'unico a mettersi in marcia verso Balvano per chiedere soccorsi. Ma la sua fu un'autentica odissea: in piena oscurità, correndo a fatica sulla massicciata, egli dovette riattraversare le due più brevi gallerie che precedano quella delle Armi, ancora sature di fumo e di gas. Quando finalmente, verso le due di quella notte, giunse in stazione di Balvano, riuscì soltanto a gridare «Laggiù sono tutti morti, tutti morti!» prima di cadere a terra svenuto.

Da Balvano partirono immediatamente i soccorsi. «Quando cominciai a riprendere i sensi - ricorda ancora Luigi Ronga - vidi una luce venirmi incontro: era il capostazione di Balvano, Ugo Gentile (oggi Capo Stazione sovrintendente a Battipaglia), che, presomi quasi in braccio, mi trascinò fino alla stazione, dove la moglie dell'allora capostazione titolare - non ne ricordo il nome - mi fece bere più di una bottiglia di latte, cosa di cui le sarò sempre grato perché cominciai quasi subito a sentirmi meglio».

«La notizia della sciagura - continua Ronga - volò attraverso i fili del telegrafo e del telefono e giunse anche a mio padre, anch'egli macchinista a Salerno. Disperato, egli si precipitò a Balvano col treno soccorso condotto dal signor Cicalese, per cercarmi tra i morti. Fortunatamente mi trovò vivo: avevo appena vent'anni e vivevo ancora con lui...».

L'8017 fu trainato a ritroso fino a Balvano. Fu spento il fuoco sulle locomotive, e iniziò la pietosa opera di composizione dei morti, che furono allineati sulla banchina tra il primo e il secondo binario. Erano 517. Gran parte delle vittime non fu mai identificata, anche se è noto che molti di essi provenivano da grossi comuni napoletani: Torre del Greco, Portici, Torre Annunziata. Molti erano anche i salernitani. Tutti furono sepolti in fosse comuni presso il locale cimitero. Si ha notizia di alcuni superstiti, che però si affrettarono ad allontanarsi dal luogo della sciagura per timore di denunce da parte della polizia militare.

Quanto ho scritto mi è stato raccontato con precisione di dettagli dal superstite e amico Luigi Ronga, in presenza dell'ancor lucidissimo padre, ormai da tempo in pensione. Conferme mi sono giunte anche dall'altro carissimo amico ed ex macchinista Eduardo Durso, che il giorno dell'incidente si trovava a Taranto con l'incarico di acquistare delle derrate alimentari per la Cooperativa ferrovieri dl Salerno.

«Viaggiavo sulla locomotiva gruppo 735 del Deposito Locomotive di Taranto - ricorda Durso - come ospite, diretto a Potenza. Da Taranto avevo telefonato a Salerno per richiedere del denaro, in quanto a Ferrandina stavo contrattando una partita di olive nere. Ricordo che a Salerno costavano 30 lire al chilo a »borsa nera», mentre a Ferrandina potevo acquistarle per sole 8 lire. Da Salerno mi rispose il macchinista Rispoli, allora presidente della Cooperativa, assicurandomi che mi avrebbe fatto pervenire a Potenza la somma di 30.000 lire, affidandola al macchinista dell'8017. Giunto a Potenza, appresi della sciagura e col primo treno disponibile mi recai a Balvano. Non mi soffermo sul tragico spettacolo, già descritto da Ronga. Il povero Gigliano non aveva mancato all'impegno: la somma che avrebbe dovuto consegnarmi fu infatti trovata tra le sua biancheria di ricambio, in una delle casse armadio poste sul tender della 476...».

Il Comando alleato che aveva sede a Potenza aprì immediatamente un'inchiesta. Furono eseguite delle prove sullo stesso percorso e con lo stesso carbone, con personale fornito di maschere a facciale: anche in tale occasione si svilupparono rilevanti quantità di ossido di carbonio. L'inchiesta fu quindi chiusa, attribuendo alla cattiva qualità del carbone ogni responsabilità, anche se la pesante composizione del treno e la poco felice ubicazione delle due locomotive, entrambe in testa al treno, contribuirono senza dubbio alla sciagura.

In seguito all'incidente, la prestazione sulla linea delle 476 fu ridotta da 420 tonnellate a 370 tonnellate con tassativo divieto della doppia trazione e della spinta in coda: si stabilì un servizio di vigilanza ai due imbocchi della galleria delle Armi, per la riconosciuta inefficienza della ventilazione naturale, fissando altresì in sessanta minuti l'intervallo minimo fra convogli con trazione a vapore. Dal 1959 queste precauzioni sono state abolite con l'entrata in servizio di nuove locomotive Diesel.

 

Fotografie:
1) - 2) La locomotiva 480.016 che si trovava in testa al treno 8017, fotografata nel 1966 sulla piattaforma girevole del deposito locomotive di Catania (foto Boddi).
3) Salerno, agosto 1980: monumento alla locomotiva presso il locale Deposito Locomotive. Da sinistra a destra, il nostro collaboratore Nicola Raimo, Edoardo D'Urso e l'allora fuochista Luigi Ronga (foto Raimo).