Bibliografia Ferroviaria Italiana

 

Treno 8017. Il più grave disastro ferroviario italiano

 

Articolo di Pino Josca ed Enrico Maria Ricciuti, pubblicato in "Omnibus", 18 marzo 1951, pagine 8-9

 


 

MORTE IN TRENO PER CINQUECENTO
Nessuno ha mai saputo niente del più grave disastro ferroviario che si sia mai verificato in Italia: ecco come andarono precisamente le cose
Inchiesta di PINO JOSCA ed ENRICO MARIA RICCIUTI

Nella squallida luce dell'alba del 3 marzo 1944, sui marciapiedi della stazione di Balvano-Ricigliano, le vittime giacciono abbandonate in attesa di una frettolosa sepoltura.

Tre grandi fosse comuni - due per gli uomini, una per le donne - accolsero allora le 512 vittime, 193 delle quali non furono identificate. Le salme sono caricate sui camion.

Nessun film neorealista potrà rendere mai la cupa atmosfera di tragedia che regnò intorno alla piccola stazione la mattina del disastro. I testimoni si guardavano intorno sbalorditi. Quasi tutti i viaggiatori erano passati dalla vita alla morte senza accorgersene.

BALVANO, marzo

POCHE decine di pastori e di contadini, che abitano nei casolari cadenti e solitari di queste campagne, alcuni funzionari delle ferrovie, cinque carabinieri, due medici e una guardia campestre, furono sette anni fa i soli testimoni del più grande disastro ferroviario che si sia mai verificato in Italia, e forse nel mondo. Il 7 marzo del 1944 il Risorgimento, l'unico quotidiano napoletano autorizzato a quell'epoca dalle autorità di occupazione, dette notizia dell'incidente in poche righe di cronaca, senza specificare nè la località in cui si verificò, nè il numero delle vittime. Da allora nessuno ha mai più parlato di quella tragica notte, che costò la vita a più di cinquecento persone, e il cui ricordo è rimasto soffocato, per una strana fatalità, nel cuore dei superstiti e di quei pochi che si trovarono sul luogo: in questa «provincia addormentata » gli avvenimenti vengono e passano, senza lasciare tracce, accettati con un fatalismo che sconcerta.

Balvano è un paesetto di duemila abitanti, a una quarantina di chilometri da Potenza, capoluogo della regione. La tragedia cominciò qui, nella notte fra il 2 e il 3 marzo del 1944. Mancavano esattamente dieci minuti all'una quando il treno merci straordinario 8017, che era giunto alle 0,12 da Napoli, si rimise in marcia. Era un convoglio lunghissimo, composto di una cinquantina di vagoni, con due locomotive; in alcuni carri vuoti, nelle cabine dei frenatori, e finanche sui respingenti, erano stipate più di seicento persone, in massima parte piccoli contrabbandieri, che in quei tempi di fame e di carestia battevano le campagne della Lucania per comprare uova, farina, legumi, che poi rivendevano in città, ricavandone appena il necessario per vivere, così faticosamente e fra tanti rischi. La linea ferroviaria che congiunge Napoli a Potenza, dopo Battipaglia è a binario unico, con trazione a vapore; ed a Balvano, appunto, la strada comincia a salire, con una pendenza che va da un minimo del sei per mille ad un massimo del ventinove per mille; una pendenza, cioè, che in condizioni normali di carico e di trazione, può essere superata solo da convogli leggeri. Il binario si addentra in un paesaggio orrido, che nella cupa oscurità delle notti d'inverno ha come sfondo le rocce e la nebbia. Subito dopo Balvano vi sono tre gallerie, di cui la terza, quella detta « delle Armi », è lunga quasi tre chilometri: un budello stretto in cui il treno pare si infili a stento, sfiorando la volta e le pareti di mattoni e di pietra. Quando il treno 8017 entrò in questa galleria niente lasciava prevedere la tragedia: quasi tutti dormivano, e c'era un grande silenzio. Ma ad un tratto i macchinisti si accorsero che a causa della pendenza troppo forte le ruote delle locomotive cominciavano a girare a vuoto sulle rotaie umide: così, per quanti sforzi facessero, il convoglio scivolò lentamente all'indietro, verso la discesa ripidissima e tortuosa per le innumerevoli curve. Fu un momento angoscioso. Bloccarono i freni disperatamente, e quando il treno fu immobile cercarono di aumentare la pressione. Una decisione fatale, perchè le macchine, che non erano neppure in perfetta efficienza, non rispondevano, ed essi stessi dovettero cadere subito, colpiti dai gas venefici sviluppati dal carbone. Infatti, quando giunsero i primi soccorsi, ì macchinisti furono trovati morti, tragicamente aggrappati alle leve di comando. Il fumo si insinuò nella galleria, e l'ossido di carbonio a poco a poco intossicò quanti si trovavano sul treno. La maggior parte di essi passò dal sonno alla morte senza accorgersi di nulla. « Improvvisamente - racconta Domenico Miele da Cicciano, Napoli, uno dei pochi scampati - il treno, che procedeva faticosamente, tornò indietro per alcuni metri e si fermò. Io ero nella vettura di coda. E fu una fortuna perchè una buona metà di essa era rimasta fuori la galleria. Rimanemmo un'ora fermi, poi il fumo che entrava da tutte le parti incominciò a farmi girare la testa e a darmi un senso di sonno. Scesi dal vagone e mi sdraiai per terra; per molto tempo ancora non venne nessuno, e dopo mi svegliai in una corsia dell'ospedale di Potenza ». I superstiti (una ottantina in tutto) non ricordano quasi niente della loro drammatica avventura. Luigi Cozzolino, da Resina, rimase otto giorni fra la vita e la morte nel letto di un ospedale; quando lo rimandarono a casa aveva perduto completamente la memoria, e non sapeva che un suo figlio di dodici anni, che lo aveva accompagnato nel viaggio, era morto fra i primi. E' difficile perciò ricostruire i particolari del dramma; una vera e propria inchiesta non è stata mai fatta, e quella notte dovettero trascorrere ben quattro ore prima che qualcuno incominciasse a interessarsi della sorte del treno 8017 e delle persone che l'occupavano. Questo è, in un certo senso, l'aspetto più fosco e inspiegabile della sciagura. Fra Balvano e Bella Muro, che è la stazione successiva verso Potenza, vi è una distanza di soli sette chilometri; tenendo conto dell'asprezza del percorso e del peso del convoglio, l'8017 avrebbe dovuto impiegare a coprirla non più di venti o venticinque minuti. Dai documenti della stazione risulta che da Balvano-Ricigliano fu regolarmente data a Bella Muro la comunicazione telegrafica dì « partito »; da quel momento il treno parve inghiottito dalla buia notte d'inverno, perchè per ore e ore nessuno ne seppe più niente, e d'altra parte (fatto gravissimo) nè il personale della stazione di Balvano, nè quello della stazione di Bella Muro, si preoccupò di chiedere in qualche modo notizia del « convoglio fantasma ». Solamente alle quattro del mattino un funzionario dello scalo di Balvano, Giuseppe Salonia, informò il capostazione Vincenzo Maglio: bisognava fare qualcosa, e nell'eccitazione del momento si sarebbe perduto forse altro tempo, se all'improvviso non fosse apparso, sbucando come uno spettro dall'oscurità della notte, il frenatore Michele Palo che, trovandosi nell'ultimo carro del treno, aveva capito a tempo la tragedia

Un aspetto della stazione di Balvano-Ricigliano la mattina del 3 marzo 1944. Le poche persone che respiravano ancora sono state trasportate con mezzi di fortuna all'ospedale di Potenza. Sul luogo sono rimasti solo i morti avvolti nei loro stracci anneriti. Balvano è un piccolo paese di duemila anime a circa quaranta chilometri da Potenza.

Luigi Cozzolino di Resina (Napoli), uno dei pochi superstiti del disastro. All'ospedale di Potenza stette otto giorni tra la vita e la morte. Ha perduto la memoria e non ha saputo mai che il figlio di dodici anni che era con lui morì per asfissia.

che si stava svolgendo intorno a lui, ed era venuto in cerca di soccorsi. Aveva il viso congestionato, il respiro mozzo per i sintomi dell'asfissia e la fatica, gli abiti a brandelli perchè si era trascinato carponi per tre chilometri, facendo sforzi sovrumani per vincere il freddo che lo paralizzava e quella gran voglia di dormire che gli pesava sugli occhi. Non ebbe la forza di dire una sola parola, ma non serviva, perchè tutti capirono che era successo qualcosa di grave.

Passarono minuti preziosi mentre si cercavano le lanterne e altri strumenti indispensabili per avventurarsi nella profonda oscurità delle gallerie; ma in quei tempi le stazioni ferroviarie erano quasi completamente sprovviste di ogni attrezzatura. Finalmente con una locomotiva di riserva si incominciò lentamente l'esplorazione della linea. Spuntava l'alba, un'alba grigia che annunciava la neve, ed erano passate cinque ore da quando l'incidente alle macchine si era verificato, cinquecento metri dopo l'imbocco della galleria delle Armi. Fu qui che agli uomini sopraggiunti si presentò uno spettacolo di morte, in un silenzio terrificante. Non un grido o un lamento. Sbigottiti corsero a chiamare il sindaco, i carabinieri, i due medici del paese;vennero a piccoli gruppi i contadini che abitavano nei dintorni, o che passavano per andare al lavoro. Il convoglio fu spinto a braccia fino alla stazione di Balvano, e tutti incominciarono a frugare febbrilmente in quella massa inerte e confusa di corpi, per cogliere un palpito di vita. Alcuni viaggiatori respiravano ancora debolmente, e furono mandati all'ospedale di Potenza, con i pochi automezzi che si riuscì a racimolare; ma quasi tutti erano morti, e in pochi minuti sui marciapiedi del la stazione, fra i binari, nei fossi vicini, si accumularono mucchi di cadaveri anneriti e cenciosi. Quanti? Qualcuno, nelle relazioni ufficiali del tempo, parlò di duecento o di quattrocento morti. Furono esattamente 521. Un numero enorme, che non ha riscontro in nessun'altra sciagura ferroviaria. Gli ispettori delle Ferrovie, le autorità di polizia e quelle provinciali si precipitarono a Balvano. Furono aperte inchieste e iniziato un procedimento penale per precisare le responsabilità. Poi, improvvisamente, il silenzio. Solo si disse che la causa del disastro doveva essere attribuita al pessimo carbone jugoslavo che gli alleati fornivano alle ferrovie italiane, e che era assolutamente inadatto a far funzionare le nostre locomotive (vecchie e in pessimo stato) poichè sviluppava una deficiente forza motrice; e questo è vero, perchè nei mesi precedenti si erano verificati altri tre incidenti del genere, che per fortuna non provocarono vittime.

Ma la verità è un'altra: furono le autorità alleate a ordinare che si sospendesse l'inchiesta e si archiviasse il procedimento penale. Questo fatto, che poteva trovare allora la sua giustificazione anche in motivi di ordine psicologico, fu confermato nel 1947 da un alto magistrato del tribunale di Potenza al presidente di Corte d'Appello Vaccariello, che, trasferito da poco alla nuova sede, si meravigliava che per un fatto così grave non si fosse preso alcun provvedimento. Ancora nel 1948 pervenivano alla Procura di Potenza istanze di familiari delle vittime, che chiedevano la restituzione delle poche robe che gli scomparsi avevano con loro. Ma, a parte questo, nessuno ha avuto finora un soldo di indennizzo. L' amministrazione delle Ferrovie sostiene infatti che l'operato degli organi ferroviari non sarebbe riferibile all'amministrazione italiana, ma al governo militare alleate il quale esercitava in quell'epoca tutti i poteri di uno stato occupante. D'altra parte, mentre il ministro del Tesoro, con un suo decreto del 26 aprile 1949, rigettava l'istanza di pensione per morte dovuta a « fatti bellici », avanzata dalla madre di una delle vittime, un certo Di Somma, esiste una circolare intestata al ministero delle Comunicazioni - Ferrovie dello Stato - Compartimento di Napoli, che, in data 15 febbraio 1944 (venti giorni prima, cioè, che si verificasse il disastro) annunziava fra l'altro testualmente: «L'esercizio della linea Napoli-S. GiovanniBarra-Potenza Inferiore è affidato alle ferrovie civili italiane, che vi provvedono col proprio personale sotto la sorveglianza delle autorità militari alleate ». Sul treno 8017 mancava del resto anche la scorta armata, che era sempre presente nei trasporti per conto degli alleati; nei verbali redatti dopo il disastro dalle autorità di polizia, e nei quali si dà atto dell'intervento di ogni persona, dal sindaco di Balvano alla guardia campestre, non viene menzionato alcun ufficiale della polizia, dell'esercito o del servizio ferroviario alleato. Ma, adesso che sono passati sette anni, è forse venuto il momento di ricordare quei morti, anche se in quei tempi in cui l'Italia era divisa, e preoccupata di altri morti, nessuno si interessò più della faccenda, e tutto finì nel silenzio e nell'oblio. Le vittime, delle quali ben 193 non potettero essere neppure identificate, furono frettolosamente sepolte in tre grandi fosse comuni, due per gli uomini una per le donne. Per tutti fu redatto un unico atto di morte.

Pino Josca - Enrico M. Ricciuti