Bibliografia Ferroviaria Italiana

 

Treno 8017. Il più grave disastro ferroviario italiano

 

Articolo di Nestore Caggiano, pubblicato in "Il Tempo", 10 maggio 1957

 


 

La “Waterloo delle ferrovie mondiali”
Cinquecentoventuno viaggiatori morirono il 3 marzo 1944 nella galleria delle Armi
Il treno merci 8017 rimase bloccato nel tunnel e la maggior parte delle persone che affollavano il convoglio perì asfissiata dalle esalazioni di ossido di carbonio. La sciagura sarà rievocata stamane dinanzi alla Corte d'Appello di Napoli

 

Napoli, 24 maggio

Nel 1922, Kira Argounova viaggiava tra Pietrogrado e la Crimea. Quali erano le condizioni dei treni? Potrebbe essere una domanda da lascia o raddoppia ma ci viene incontro Ayn Rand, l'autrice del romanzo Noi vivi, che ci suggerisce: «I vagoni erano stracarichi di esseri umani e di fagotti: fagotti avvolti in lenzuola, giornali, sacchi di farina, esseri umani infagottati in soprabiti cenciosi e in scialli. I fagotti, che avevano servito da letto, avevano perduto ogni forma; la polvere aveva solcato la pelle arida e screpolata dei volti che avevano perso ogni espressione. La gente si attaccava come ostriche ai gradini, ai respingenti, ai tetti delle vetture. Nell'affanno si perdevano i bagagli, si perdevano i figlioli. Ed il treno, senza il minimo avviso, senza un suono di campanella, partiva da un momento all'altro, portando con sé quelli che erano riusciti a ficcarsi dentro». Erano tempi di rivoluzione in Russia.

Come viaggiavano, nel 1944, Pelella Giuseppe da Torre del Greco e tanti altri? La risposta allo stesso Pelella Giuseppe, che montò sul merci n. 8017, la sera del 2 marzo: «Viaggiavamo in molti per le stringenti necessità del procacciamento dei viveri. Non vi erano treni viaggiatori salvo qualche vettura, di tanto in tanto. Gli alleati ci cacciavano, sparando in aria o adoperando lo sfollagente, ma il personale viaggiante italiano dei treni ci faceva salire e accettava il pagamento rilasciando le bollette. Pagavamo a seconda del percorso e del peso dei nostri bagagli. Non sono in grado di dire se applicassero una tariffa, ma spesso pretendevano anche un regalo in natura come una bottiglia d'olio e un po' di fagioli o alcune uova».

[Una impressionante documentazione fotografica: i corpi delle vittime della sciagura della galleria delle Armi allineati lungo il marciapiede della stazione di Balvano dalle squadre di soccorso giunte, purtroppo, quando ormai era tardi]

Per sua fortuna, il Pelella scese a Buccino (Salerno), cioè 19 chilometri prima delle galleria «delle Armi», Tra Balvano-Ricigliano e Bella-Muro (Potenza), che fu la Waterloo delle ferrovie mondiali: vi morirono ben 521 persone, molte delle quali ancora oggi, dopo tredici anni, non sono state identificate. Un'altra battaglia perduta mentre la guerra ancora divampava sul fronte di Cassino.

Ricapitoliamo quel tristissimo viaggio, che per la maggior parte dei passeggeri fu l'ultimo.

Il treno merci n. 8017, in servizio sulla Napoli-Potenza, la sera del giovedì 2 marzo 1944, lasciò la stazione di Piazza Garibaldi. Era diretto a Catanzaro, dove avrebbe dovuto caricare legname da servire «per esigenze belliche determinate dalla guerra e di competenza del Governo Militare Alleato (AMG)». Una precisazione: il tratto Napoli-Potenza, come tutti gli altri, era stato dichiarato di interesse militare ed era gestito in proprio dall'AMG con la collaborazione del personale italiano. Era autorizzato il transito di un solo treno passeggeri alla settimana (il mercoledì), vuoi per combattere la borsa nera e vuoi per il noto vae victis.

Quasi un assalto

L'8017 alla sua partenza non era affatto deserto: i pochi carri non sigillati (5 o 6) erano stati presi d'assalto dalla solita folla di borsari neri, di impiegati e di studenti. Alcuni di costoro avevano fatto anche il biglietto. Era proibito di salire sui merci, ma il tira a campare ed il tornaconto avevano fatto il non raro miracolo della ... malleabilità. Napoli scomparve in una schiuma di luci riflesse nel mare color lavagna. Stazione per stazione, il lunghissimo convoglio calamitava e risucchiava file pazienti di viaggiatori, ai quali nessuno si opponeva, neppure la scorta militare (composta da un ufficiale italiano e da sette soldati). I fuochisti buttavano a palate il carbone sotto la caldaia e la corsa affannosa riprendeva. Nocera, Salerno, Battipaglia, Eboli: altri gruppi di viventi uscivano dall'ombra della notte, rompendo la stanca immobilità dell'attesa. Salirono sul lungo e nero lumacone notturno ed i più erano diretti verso gli aspri paesi appollaiati sui monti o le masserie delle brulle giogaie appenniniche, ambite riserve di stentate bevande. Nell'oscurità e nella ressa, sotto la pioggia, donne e uomini per la fretta di salire sui carri-bestiame ed assicurarsi un posticino, cadevano, urlavano, ma nessuno aiutava.

A Battipaglia salì Ciro De Gaetano «insieme ad una cinquantina di persone»; ad Eboli il prof. Vincenzo Jura dell'Università di Bari con una decina di studenti. E via, soffiando, arrancando, nella notte umida e fredda.

Le stazioni di quella via crucis si seguivano: Sicignano, Buccino, Romagnano al Monte, sotto il suo pugno di case inchiodato alla roccia nella paurosa fenditura che s'apre sull'ultima valle del Salernitano, tredici chilometri prima della galleria detta «delle Armi» e che dovrà ricordarsi come la galleria della Morte. «Scesi alla stazione di Romagnano – dice Nicola Scognamiglio – Avevo fatto il biglietto in treno e pagato anche la multa. Ritengo che vi fosse un servizio normale di controlleria nella vettura perché si presentò il controllore con alcuni agenti».

L'ultima sosta prima della tragedia

Lungo la stretta, profonda, aspra valle, siamo alla stazione di Balvano-Ricigliano. Qui il merci 8017 giunse alle 0,12 del 3 marzo, venerdì: numero, mese e giorno da bancolotto per un terno di morte. E sostò. Il personale viaggiante scese, scambiò qualche chiacchiera, accese l'ultima sigaretta.

I viaggiatori, vinti dal sonno, dalla stanchezza e dalla rassegnazione, russavano o si abbandonavano ad un grave dormiveglia senza sogni.

Lasciamoli per un momento in quel torpore crepuscolare, in quella sosta, nel pieno della notte, mentre i polmoni d'acciaio del treno e quelli di oltre 600 persone stantuffavano; e partiamo anche noi del treno 8017. Questo era costituito, secondo l'ingegnere Boisio Pietro – l'allora capo trazione di Napoli -, da 45, secondo altri da 47 carri, ed era trainato da due locomotive tipo 476, di alta montagna, che erano servite da carbone jugoslavo, fornito dagli stessi alleati, di molto scarso potere calorifico e di un'alta percentuale di scorie, che, per giunta, nella combustione sprigionavano gas letali, quale l'ossido di carbonio che, come è di generale nozione, ha un alto grado di tossicità.

L'8017 «poteva tirare almeno 600 tonnellate, tenendo conto anche del carbone scadente»., secondo l'ing. Boisio. Ma, se così, poiché a vuoto pesava 479 tonnellate ed il solo carico era costituito dai 600 viaggiatori, il cui peso può all'incirca valutarsi dalle 30 alle 35 tonnellate, onde un peso complessivo di circa 520 tonn. e cioè di oltre 80 tonn. in meno di quel massimo di tonnellaggio trasportabile dichiarato dal capo trazione. A chi ed a che cosa si deve fare risalire l'immane disastro?

Ma torniamo alla stazione di Balvano.

Ore 0,50. Il capostazione diede il via; la notte sussultò ai tre urli di sirena ed una densa fumata rossastra salì nell'aria umidiccia; i conduttori ed i frenatori lanciarono l'ultimo saluto ed i fuochisti nuove palate di carbone.

L'aria passava di bocca in bocca, nei carri del convoglio che arrancava nella densa nuvola di fumo. Un'afa gravava sui borsari neri che sognavano lattine d'olio, manate di fagioli e di fave, sacchetti di grano, grossi pani da scaricare sul mercato di Scafati o di Napoli. Era la guerra. Qualche giovane aveva scovato una ragazza ed aveva tentato di attaccare bottone, ma le ferraglie traballavano ed il sonno e la stanchezza erano più forti. Non mancavano madri con al collo i piccini e padri che non abbandonavano la mano dei più grandicelli. «La guerra, ragazzi, non è finita». Croste di pane e tanfo cacio e vino. Il silenzio della notte pareva li cloroformizzasse nonostante lo sferragliare delle ruote sui viscidi binari. Sulla cadenza di quella marcia appena si stagliava il profilo della terra lucana. La mano di un tragico destino era al timone di quella barca di Caronte.

Non si va avanti

L'8017 superò la prima galleria che ha inizio a poche centinai di metri dalla stazione di Balvano. La strada sale, sale. La seconda galleria fu percorsa lentamente; quindi un tratto all'aperto in una forra e infine la fatale galleria delle Armi. La pendenza qui raggiunge il 13 per mille. Il convoglio fece i primi 200 metri; poi le ruote non morsero più le rotaie: girarono a vuoto. Altro carbone, altra pressione nelle caldaie, ma le ruote non afferravano i binari, non facevano presa e vorticavano come infernali girandole. Quei fuochisti, neri di fumo, lustri di sudore e di fiamma non hanno avuto forse il loro pittore. E con essi, i frenatori ed i pochi svegli furono assaliti dalla più tremenda disperazione. E il micidiale gas nell'aria umida di pioggia dilagava nell'atmosfera rarefatta. Un terrore senza bombe, senza grida, con cinque, sei cori di rantoli, soffocati. Coloro che dormivano non seppero di morire.

Qualche nome delle molte persone su cui scese quella morte ingloriosa e miserevole? Eccone qualcuno dei passeggeri, in maggioranza dei dintorni di Napoli: Formisano Domenico, Arnese Gaetano, Cozzolino Aniello, Esposito Donato, Ascione Michele, dell'Isola Armando, Tammaro Antonio, Avventurato Agostino e vincenzo, Pierno Arturo, Betti, Paduano, Palumbo, Filosa, Fiengo, Gaezza, di Bartolomeo, Piccolo, Esposito.

Vogliamo credere che il prof. Jura ed i suoi infelici studenti abbiano un ricordo nell'Università di Bari. Purtroppo però le vittime furono 521!

Solo parte dell'ultimo carro dell'8017, ormai fermo, era rimasto fuori della galleria mentre la locomotiva di testa distava un centinaio di metri dal suo sbocco. Michele Palo era sveglio. Bruciava alcune stoppie e torce di giornali per scaldarsi quando sentì soffocarsi. Ebbe uno stordimento ma riuscì a fuggire dalla cabina di coda. Si rese conto della tragedia, chiamò qualche nome e corse ma le forze non gli bastavano e poté scorgere solo dopo due ore le luci della stazione di Balvano, distante quattro chilometri. Ivi annaspava un'altra locomotiva sotto pressione. «Avevano già saputo?!» Prima di svenire disse a Giuseppe Salonia (il capostazione titolare Maglio, dopo aver dato il via alle 0,50, era andato a dormire): «Là, sono tutti morti, là». Erano oltre le tre.

La locomotiva sotto pressione staccata per ordine di Salonia, apparteneva ad un altro merci (8025) che era giunto in orario, ma aspettava il giunto dalla prossima stazione di Bella-Muro per proseguire a quella volta. La distanza tra le due stazioni è di sette km., ma alcune volte era superata in quasi 120 minuti per la forte salita ed il cattivo combustibile. Ciò forse spiega perché quel ritardo non aveva destato meraviglia ai dirigenti delle stazioni vicine. Intorno alle 2,50, Solonia aveva ricevuto una telefonata da Bella-Muro ed aveva risposto che si sarebbe reso conto del ritardo con un sopralluogo. Pochi minuti dopo, vide giungere disperato Michele Palo; seppe e, svegliato il capostazione titolare Maglio, sulla locomotiva si diresse là. Paolo non era stato in condizione di precisare il luogo del disastro. Agganciarono alla coda l'8017 inchiodato e, facendo marcia indietro, lo trassero [incomprensibile nell'originale] alla stazione di Balvano, trovarono il sindaco, ing. Alessandro Di Stasio, i carabinieri, il capostazione Maglio e gli altri due ferrovieri.

I morti erano tanti, più dei vivi. Solo poche diecine respiravano ancora vomitando l'aria infetta. Dall'immane bara furono tratti ed allineati sul piazzale (stava albeggiando) 521 cadaveri, dei quali 328 soltanto identificati. Il cimitero di Balvano si riempì.

Uno dei sopravvissuti, Domenico Miele, che vive di stenti a Roccarainola, deve il miracolo alla propria sciarpa e ricorda di essersi svegliato all'aperto coi capelli bianchi; Luigi Cozzolino di Resina rammenta a malapena di essere partito col figlio, che può rivedere soltanto in fotografia.

Si chiede giustizia

Seppelliti i morti nel piccolo cimitero di Balvano e ricoverati i superstiti nell'ospedale di Potenza, ricominciò la vita per questi e continuò quella di tante donne rimaste vedove, di tanti figli divenuti orfani che hanno saputo trovare salvezza soltanto nella religione, la sola salvezza per tanta miseria del Sud.

Quei 521 morti sono le vittime di un oscuro destino, ma dovrebbero impegnare non meno di tante altre lo storico e lo statista. A ragione, coloro che ebbero cari quegl'infelici attendono la giusta riparazione dallo Stato poiché nessuno potrebbe in buona fede negare che tanta sciagura è da rapportarsi alla sconfitta e che è debito di onore e compito di giustizia alleviarne le conseguenze.

Ma ancora è pendente il giudizio intentato per il risarcimento dei danni contro le FF.SS., essendone stata chiesta e disposta la sospensione al fine di concludere le trattative in corso per una bonaria composizione. Fra breve – e precisamente domani 25 maggio – la causa riprenderà il suo corso davanti la prima Sezione Civile della Corte di Appello di Napoli. E speriamo che sia la volta buona per le sorti di tanti diseredati e per il buon nome dell'Amministrazione.

Remore burocratiche

La burocrazia, quando non può andare avanti, suole trincerarsi di remore – e non sempre le si può far torto – per non andare indietro, ma la pubblica amministrazione deve, in determinati casi, essere ed apparire svelta e magnanima per superiori esigenze di bene intesa responsabilità e convenienza politica e sociale.

Quale che sia stato l'esito di altri procedimenti, è certo che, dalle indagini necroscopiche svolte dal cap. Osturn di Parigi e dal Comandante Giberton di Algeri, risultò che l'ambiente nella galleria delle Armi aveva un'altissima percentuale di ossido di carbonio e le vittime erano in massima parte tra i 20 ed i 40 anni.

I miliardi spesi e a spendere a favore della Cassa del Mezzogiorno non debbono far dimenticare la catastrofe del lontano 1944.

Il mercato nero, visto con lo stomaco pieno è deprecabile; visto senza il terrore della fame, è condannabile; ma non possiamo perciò non domandarci quanti di noi attingevano allora gli alimenti da quel mercato. Dunque la maggior parte dei passeggeri s'immolarono nella galleria delle Armi dell'amara Lucania per il pane quotidiano. Ed ancora i congiunti di non pochi di essi aspettano per aprirsi una via e una vita interrotta nel lontano indimenticabile triste marzo. Come frattanto hanno vissuto? Non certo con una chitarra al collo per qualche festival rionale; forse, bussando al cuore generoso dei napoletani.

Siamo certi che, se fosse stato ancora in vita Salvatore Di Giacomo, non avrebbe più scritto: marzo: nu poco chiove – n'ato ppoco stracqua: - ... ride ‘o sole cu ll'acqua.

Nestore Caggiano