Bibliografia Ferroviaria Italiana

 

Treno 8017. Il più grave disastro ferroviario italiano

 

Articolo di Gordon Gaskill, pubblicato in "Selezione dal Reader's Digest", Luglio 1962, pagine 11-16

 


 

La misteriosa
catastrofe
del treno 8017

 

Quasi nessuno sapeva allora che cosa stesse accadendo
e ancor oggi nessuno sa con esattezza
che cosa sia avvenuto; eppure quel disastro ha fatto più
vittime d'ogni altra sciagura ferroviaria

 

Gordon Gaskill

 

Quando il treno 8017 transitò per i binari di smistamento della stazione di Salerno, nella fredda e piovosa sera del 2 marzo 1944, nulla poteva far pensare che fosse avviato a una catastrofe. Infatti l'8017 non ebbe uno scontro, non deragliò, non s'incendiò né fu altrimenti sinistrato. Eppure causò un numero di morti forse superiore a quello d'ogni altro disastro ferroviario.

Sul treno 8017 c'era infatti un assassino: il carbone per la locomotiva. Era di qualità scadente (c'era la guerra e il carbone scarseggiava) e la sua imperfetta combustione dava talvolta origine a quantità anormali d'ossido di carbonio, gas tossico e inodoro.

Il treno non avrebbe dovuto trasportare passeggeri. Ma, come molti altri merci nella zona di Napoli lo faceva, perché a Napoli c'era poco da mangiare. L'occupazione alleata, cinque mesi prima, aveva interrotto i traffici tra la città e la campagna ed era sorta un'attivissima borsa nera. Uomini, donne e bambini compravano (spesso dalle truppe alleate) merci rare come sigarette e cioccolata e le portavano nelle campagne per scambiarle con uova, olio, carne e simili che poi rivendevano a Napoli con forte guadagno.

Una delle zone più battute dai trafficanti della borsa nera era la ricca campagna intorno a Potenza, a 110 chilometri da Salerno, e siccome quasi tutti gli automezzi civili erano stati requisiti o erano immobilizzati per mancanza di carburante, l'unico modo d'arrivarci era il treno: di solito un merci. Naturalmente non tutti i passeggeri abusivi dell'8017 erano borsisti neri. Alcuni erano uomini o donne che andavano a cercare viveri per la loro famiglia. Alcuni erano persone costrette a viaggiare e che non avevano trovato altri mezzi.

L'8017 era un lungo convoglio di 47 vagoni, una ventina dei quali scoperti. Ma soltanto 12 erano carichi; gli altri erano vuoti, aggiunti per riportare indietro merci e materiale militare.

Al nodo di Battipaglia, la polizia militare americana fece scendere molti passeggeri abusivi che protestarono... ma che in seguito avrebbero ringraziato la Provvidenza.

Alle 19.12 il treno arrivò a Eboli dove salirono circa altri l00 abusivi. Poi a Persano ne montarono almeno altri 400, pigiandosi nei carri vuoti e riempiendo ogni più piccolo spazio dei vagoni carichi di merci.

A quel punto l'8017 aveva a bordo tra 600 e 650 viaggiatori abusivi. E a Romagnano - tra le montagne e a soli 43 chilometri dalla meta - fu agganciata in testa una seconda locomotiva.

Alle 23.40 il treno partì faticosamente da Romagnano. Dopo soli sei chilometri e mezzo si fermò in una sperduta stazioncina il cui nome doveva divenire tristemente famoso negli annali delle ferrovie: Balvano. Il treno che precedeva sull'unico binario aveva noie alla locomotiva e mentre l'8017 aspettava d'aver via libera il suo personale di macchina provvide ad aumentare la pressione delle caldaie nelle due locomotive in vista della prossima salita.

Cominciò a profilarsi a quel punto l'ombra del disastro. La stazione di Balvano (il paese è lontano circa tre chilometri e mezzo) è situata in un breve tratto fra due gallerie. L'8017 era tanto lungo che la metà dei vagoni era rimasta dentro la galleria in discesa dove stagnava ancora il fumo delle due locomotive. Non tirava neppure un alito di vento che lo disperdesse.

Così, per tutti i 38 minuti della fermata, la metà dei passeggeri respirarono fumo e gas. Ma i più dormivano, ignari del pericolo.

Infine alle 0.50, i due macchinisti allentarono i freni, spinsero le leve dell'acceleratore e l'8017 s'infilò nella galleria in salita. Il capostazione di Balvano batté al telegrafo il segnale di partito al suo collega della stazione successiva, Bella-Muro. L'8017 sarebbe dovuto arrivare a Bella-Muro, lontana meno d'otto chilometri, in circa 20 minuti dopo di che il capostazione avrebbe telegrafato a Balvano il segnale giunto.

Ma il giunto non arrivò dopo 20 minuti né dopo 60... né mai. Il territorio tra Balvano e Bella-Muro è aspro e selvaggio, solcato dalla gola di un tortuoso torrente, il Platano. Tra le due stazioni non ci sono strade; l'intero tratto è un seguito di gallerie e di viadotti. Il Monte delle Armi è forato dal più lungo tunnel della linea, la Galleria delle Armi, rettilinea, lunga poco più di un chilometro e mezzo, e in forte pendenza. Era passata da poco l'una quando il treno entrò nella Galleria delle Armi.

Quel che avvenne di preciso nella galleria nessuno lo sa né lo saprà mai. Tutt'e due i macchinisti morirono al loro posto di guida. Nell'orrore e nella confusione, i superstiti ricordarono ben poco d'importante. I soli fatti accertati sono questi: quando le due locomotive giunsero a metà galleria, le ruote motrici della macchina di testa cominciarono a slittare. Il macchinista sparse sabbia sulle rotaie, ma senza risultato. Le ruote non esercitavano più trazione: il treno si fermò. Poi arretrò di qualche metro (quanto bastò perché gli ultimi tre vagoni uscissero all'aria aperta all'imbocco più basso della galleria) e si fermò di nuovo, questa volta definitivamente.

Tutto il resto è congettura. I soli indizi esistenti lasciano perplessi. La locomotiva di testa fu trovata non frenata, con la leva di comando sulla retromarcia. La seconda locomotiva, invece, fu trovata frenata, con la leva di comando tutta spinta in avanti. A quanto pare, quando il treno si fermò, i due macchinisti la pensavano in modo fatalmente diverso sul da farsi.

Dai fumaioli delle locomotive, con il personale di macchina morto o moribondo, il fumo continuò senza dubbio a venir fuori. Man mano che nell'aria della galleria diminuiva l'ossigeno, il fumo conteneva una quantità sempre maggiore d'ossido di carbonio. Come un rettile mostruoso, il fumo e il gas serpeggiarono a ritroso nella galleria, uccidendo silenziosamente centinaia di persone.

Molto addietro alle locomotive che si sforzavano invano di rimettersi in moto, i pochi viaggiatori ancora svegli si resero conto della fermata.

Come i passeggeri di qualsiasi treno, i più pensarono che i ferrovieri sapessero quel che facevano e attesero pazientemente. Ma un giovanotto, certo Francesco Imperato, quando cominciò a tossire e a soffocare, propose al cugino d'avviarsi a piedi verso l'uscita della galleria.

Il cugino obiettò: «Come facciamo a sapere qual è l'uscita più vicina? Aspettiamo a vedere quel che avviene.»

Francesco decise d'andare da solo. S'alzò... e da quel momento non ricorda più nulla fino a quando riprese i sensi qualche ora dopo alla stazione di Balvano. Probabilmente era arrivato tanto vicino all'aria fresca da potersi salvare. Il cugino morì.

Domenico Miele era in un vagone vicino alla coda del treno, ma ancora dentro alla galleria. Quando il fumo divenne eccessivo, s'avvolse la sciarpa intorno alla bocca e al naso, scese dal vagone e cominciò a camminare verso la coda. Era appena arrivato allo sbocco del tunnel quando si sentì mancare. Temendo di rimanere a terra se il treno fosse ripartito, salì semistordito sul vagone più vicino, un carro merci scoperto, il terzo dalla coda del treno, metà dentro e metà fuori la galleria. Miele non s'accorse più di nulla finché anche lui rinvenne la mattina dopo a Balvano e scoprì che i capelli da neri gli erano diventati grigi.

In quello stesso carro scoperto, il terzo dalla coda, c'era Luigi Cozzolino. Questi dormiva e così il suo figliuolo dodicenne. A un certo momento di quella terribile notte Cozzolino si svegliò e s'avvide che il figlio era morto. Per un bel pezzo rimase inebetito dall'orrore... incapace di pronunziar parola.

I viaggiatori degli ultimi due vagoni erano rimasti completamente fuori della galleria. Sebbene indeboliti e semisvenuti per la fermata di 38 minuti entro la galleria di Balvano, soltanto pochi morirono; gli altri dormirono un sonno profondo, quasi ipnotico.

Sull'undicesimo vagone dalla coda, ben addentro la micidiale galleria, viaggiava Giuseppe De Venuto, un operaio delle ferrovie che faceva da frenatore. Si stupì nel sentire il treno fermarsi, arretrare a scossoni e fermarsi di nuovo. Quando il fumo divenne insopportabile, scese dal treno e si diresse verso l'uscita della galleria dove trovò il frenatore Roberto Masullo steso a terra, stordito e colto da malore. De Venuto aveva capito ormai quale sorte fosse toccata a quasi tutte le centinaia di persone rimaste nella galleria. Masullo, che era un suo superiore, disse a De Venuto di correre subito a Balvano per dar notizia dell'accaduto.

Arrivare fin lì fu un incubo. Era buio pesto e De Venuto non aveva lampadina: l'unica strada era quella sui viadotti e attraverso le gallerie che puzzavano ancora di fumo. Trascinandosi carponi, semisvenuto, nauseato dal fumo e dall'orrore, procedé metro per metro verso Balvano.

Di tutte le cose incredibili di quella notte incredibile, nulla lo é più del tempo che occorse ai capistazione di Balvano e di Bella-Muro per chiedersi che cosa facesse ritardare tanto l'8017. Soltanto alle 2.40 - quasi due ore dopo che il treno era ripartito da Balvano - i capistazione conclusero che ci dovesse essere qualcosa d'anormale. Ma poi si dissero che avrebbero potuto fare ben poco in merito: ci sarebbe voluta una buona ora di cammino per arrivare al treno e un'altra ora per tornare indietro.

Alle 5.10 De Venuto entrò barcollando nella stazione di Balvano, agitò un braccio in direzione dei binari e disse con voce rotta: «Là, là, sono tutti morti, tutti morti!». Poi svenne.

Sgomento, il capostazione di Balvano spedì dispacci a tutte le autorità possibili e immaginabili: alla Croce Rossa, ai carabinieri, al municipio di Balvano, alla sede del Governo Militare Alleato a Potenza. I primi carabinieri e funzionari che arrivarono dal paese di Balvano fecero staccare una locomotiva da un altro merci e si diressero al treno della sciagura. I fanali di testa della loro macchina illuminarono una macabra scena: corpi senza vita stesi sulle rotaie. Li trassero da parte, agganciarono l'8017 e lo rimorchiarono a Balvano. Qui, finalmente, videro quali fossero le proporzioni spaventose del disastro.

In un vagone i corpi delle vittime erano talmente ammassati che non si riusciva a far scorrere lo sportello. Bisognò squarciarlo.

I volti dei morti erano per lo più sereni. Un colonnello dell'esercito americano, giunto sul posto poco dopo, raccontò in seguito: «Non mostravano il minimo segno di sofferenza. Molti erano seduti con il busto eretto o nella posizione che si assume quando si dorme normalmente». Parecchi avevano tracce di sangue rosso vivo intorno alle narici. Questo colore rosso vivo del sangue è un segno sicuro dell'avvelenamento da ossido di carbonio.

A poco a poco, il macabro carico di cadaveri fu tolto dai vagoni e deposto sul marciapiede della stazione. Autocarri militari alleati venuti da Potenza aiutarono a trasportare d'urgenza i superstiti agli ospedali, e più tardi compirono il più penoso servizio di portare i cadaveri al cimitero di Balvano per la sepoltura in tre fosse comuni, due per gli uomini e una per le donne. Delle centinaia di morti che vi furono sepolti, quasi 200 non furono mai identificati.

Quante furono le vittime della sciagura di Balvano? La cifra più probabile è 425, benché alcuni l'abbiano fatta salire a oltre 600. Tuttavia, nonostante il numero dei morti, il tremendo disastro passò quasi inosservato a quell'epoca. A Napoli c'era un solo giornale autorizzato dagli Alleati e i censori permisero di pubblicare soltanto una vaga notizia in cui si diceva che un numero non specificato di persone era morto per asfissia «in una località dell'Italia Meridionale». I giornali degli Stati Uniti menzionarono brevemente il fatto il 23 marzo, quando una commissione militare d'inchiesta americana presentò la sua relazione. Funzionari militari delle ferrovie la definirono «la più insolita e spaventosa catastrofe nella storia delle ferrovie».

Quanti furono i superstiti? Probabilmente da 100 a 200: molti non dichiararono d'essere scampati al disastro per timore delle pene previste per i viaggiatori abusivi.

Dopo la sciagura, le ferrovie alleggerirono di molto i treni che attraversavano la Galleria delle Armi. Fu stabilito un servizio di vigilanza diurno e notturno allo sbocco in discesa della galleria, con un collegamento telefonico per Balvano. Al passaggio d'ogni treno, ogni altro traffico su quel tratto di linea era sospeso finché la guardia comunicava per telefono che, guardando attraverso la galleria, vedeva la luce all'altra estremità: il che significava che il fumo si era disperso a sufficienza per lasciar passare altri treni. Nel 1959 questa precauzione fu abolita perché le ferrovie provvidero a mettere in servizio su quella linea locomotive diesel-elettriche.

Il governo ha indennizzato le famiglie delle vittime. E tutti gli anni, il 2 novembre, giorno dei Morti, ci sono famiglie napoletane che vanno a deporre fiori sulle fosse comuni di Balvano. Una madre mi ha detto: «Non so di preciso dov'è sepolto mio figlio, ma so che è vicino ai miei fiori».