Bibliografia Ferroviaria Italiana

 

Treno 8017. Il più grave disastro ferroviario italiano

 

Articolo di Agostino Gramigna e Adolfo Pappalardo, pubblicato in "Sette", 4 marzo 2004, pagine 42-44

 


 

Casi da riaprire - La più grande catastrofe ferroviaria
CARO PRESIDENTE CIAMPI, SI RICORDA DEL TRENO DEI MORTI?
Balvano 1944: un convoglio si ferma in una galleria e lì muoiono oltre 500 persone. Per asfissia. Una sciagura taciuta dalle ferrovie italiane ma soprattutto dagli Alleati, che controllavano la linea Napoli-Potenza. Per sessant'anni nessuno (o quasi) ne ha mai parlato. Ora i parenti delle vittime raccontano le loro storie a «Sette». E lanciano un appello al capo dello Stato.

 

di AGOSTINO GRAMIGNA e ADOLFO PAPPALARDO

 

 

Aveva i capelli lisci e voleva farsi la permanente. Sua madre però era senza soldi. Così la ragazzina, testarda, aveva insistito. «Mamma, fammi prendere quel treno». Elisabetta aveva 14 anni quando in una fredda serata del '44 (marzo) salì sul vagone merci con altri due parenti di S. Egidio (Salerno), per andare a fare un po' di contrabbando e pagarsi la permanente. Era il suo primo viaggio. Fu anche l'ultimo. Morì nel sonno, dentro la galleria piena di ossido di carbonio, un gas tossico e inodore. E con lei oltre 508 persone, come c'è scritto nella «cappella dei napoletani», così viene chiamata, del piccolo cimitero di Balvano.

Balvano non dirà molto agli italiani, se non, forse, per il terremoto dell'80, che distrusse mezzo paese e causò la morte di 77 persone. Eppure questo piccolo borgo della Basilicata fu teatro, 60 anni fa, di un'altra tragedia, di ben altre proporzioni. Forse la più grande sciagura ferroviaria d'Europa: quella del merci 8017, il treno partito da Napoli diretto a Potenza per prendere legname, che trasportava abusivamente oltre 600 persone. Morirono professori universitari, famiglie che sfollavano per sfuggire ai bombardamenti, contrabbandieri e gente comune che andava a vendere pellame o a comprare farina, formaggi e salumi.

Una tragedia di guerra, nonostante le vittime fossero quasi tutte civili, di cui non si è mai parlato. Rimossa e dimenticata dalla coscienza nazionale. Non per vergogna o per pudore, come è successo in altri casi (nella vicina Esperia, sempre nella primavera del '44, furono violentate oltre 700 donne nel silenzio della storiografia e delle popolazioni locali). Semplicemente affossata e negata dalle autorità anglo-americane. A Balvano, nei giorni immediatamente successivi alla catastrofe, prevalse la logica della real-politik. Motivo?

Dopo lo sbarco a Salerno, gli Alleati controllavano trasporti e ferrovie. Dal primo ottobre del '43 quelle del compartimento di Napoli erano state assunte direttamente dal Governo militare alleato (A.M.G.). E sul treno merci avrebbero dovuto viaggiare solamente militari. Inoltre, il carbone utilizzato, acquistato in Jugoslavia, era di pessima qualità, altamente tossico. Per questo la censura fu pressoché totale. Sia durante la guerra che negli anni successivi (tranne due eccezioni: un articolo dell'Europeo negli anni '50 e di Famiglia Cristiana nel '79). La prima commissione d'inchiesta (governo Badoglio) concluse i suoi lavori con un nulla di fatto. La catastrofe fu classificata alla voce «caso di forza maggiore». Le Ferrovie dello Stato sostennero che considerata l'occupazione militare da parte del governo anglo-americano nessuna responsabilità poteva essere addebitata all'amministrazione. E gli Alleati esclusero ogni responsabilità da parte del personale delle Ferrovie.

 


Il foulard nero. «Mio padre riconobbe il corpo di mia madre ammassato tra i cadaveri da questo particolare», dice Vincenzo Francione (nella foto). Che aggiunge: «Com'è possibile che le autorità italiane non si siano mai ricordate di noi?».

 

Nella sua abitazione di Torre Del Greco, Vincenzo Francione ha un cenno di commozione. Sono passati 60 anni, ma il ricordo di sua madre, Giulietta Brancaccio, che si trovava sul treno merci, è ancora vivo. «Possibile che il capo dello Stato, che pure è molto sensibile ai temi della memoria, si sia dimenticato di noi? Possibile che questa storia non interessi a nessuno?». Giulietta non faceva contrabbando, come si chiamavano allora i viaggiatori che andavano in Basilicata per acquistare prodotti agricoli che poi rivendevano a Napoli e Salerno. Lei si era trasferita, con cinque dei suoi nove figli, a Baragiano (30 chilometri da Potenza), dove abitava una sua sorella, per sfuggire ai bombardamenti. Mentre Vincenzo scaricava le navi americane al porto di Napoli assieme a suo padre e agli altri fratelli. «Mia madre viaggiava su quel treno per portarci da mangiare. Purtroppo il destino l'ha chiamata». Quando il destino ha deciso di prendersi cura di lei, aveva 44 anni. Il marito riconobbe il suo corpo tra la montagna di cadaveri allineati sul marciapiede della stazione da un particolare: un foulard nero.

Sulle montagne c'era la neve ed era da poco passata la mezzanotte quando il merci 8017 s'infilò nella galleria delle Armi subito dopo Balvano. Per una serie di coincidenze negative (cattiva qualità del carbone, treno sovraccarico, passeggeri stanchi che dormivano, pioggia che faceva slittare le ruote sulle rotaie) il treno si fermò in salita. 1 macchinisti per aumentare la pressione delle caldaie misero più carbone, trascurando il pericolo del monossido di carbonio. Il veleno li prese alla gola, poi la nube si estese nella galleria. Si salvarono in pochi. Il primo a morire fu il macchinista Espedito Senatore.

 


Il macchinista Espedito. Fu uno dei primi a morire. Ora le figlie Gilda e Giuseppina rivendicano un risarcimento.

 

Le sue figlie Gilda e Giuseppina ora abitano a Cava de' Tirreni, vicino a Salerno, dove si erano trasferite dopo la morte del papà. Gilda aveva cinque anni e al momento della notizia della sciagura, ricorda, stava giocherellando con una foto di famiglia. Giuseppina di anni ne aveva dodici. Per lei suo padre non è morto: «Me lo immagino sempre sul treno». Espedito aveva 38 anni e sin da piccolo sognava di fare il macchinista. Alla vigilia del suo primo viaggio aveva avuto la febbre alta. Per l'emozione. Nonostante sia trascorso molto tempo, le figlie avrebbero deciso di chiedere un risarcimento. «Ma non sono i soldi che ci interessano. Lo facciamo perché vogliamo che si parli di quella tragedia. Per la memoria di nostro padre».

Memoria che non ha abbandonato Vincenzo Pacella, oggi ultraottantenne, all'epoca un giovanotto dal fisico possente. Era rientrato a Balvano dopo l'armistizio dell'8 settembre, dalla Jugoslavia. Aveva visto morire un soldato italiano, ucciso dai tedeschi, solo perché aveva gridato viva l'Italia. «Nel '44 eravamo tutti sbandati», ricorda. Quella mattina del 3 marzo fu costretto dal podestà e dai carabinieri ad andare alla stazione dove era arrivato il treno con i cadaveri. «Cominciammo a scaricare». Pacella fu uno dei primi a giungere sul posto. «Sul vagone appena dietro la locomotiva, sul carbone, c'erano quattro donne e due uomini. Uno aveva ancora una sigaretta in mano, l'altro stava succhiando un uovo». Quelli che davano segni di vita venivano messi nella sala d'attesa. Gli altri sul marciapiede. «Molti corpi furono sfregiati con le pale da avvoltoi per rubare anelli, catenine e fedi».

Al cimitero furono scavate tre fosse comuni: due per gli uomini e una per le donne. Pioveva e nevicava. Il cimitero di Balvano è stato allargato nel '44 una prima volta. Poi, dopo il terremoto, una seconda. Filomena Di Stasio oggi ha 82 anni, ricorda che la sorella, dell'Azione cattolica, ne salvò uno. Capì che era ancora vivo e lo portò via. Dopo alcuni anni l'uomo ritornò a Balvano per ringraziarla e per sposarla. Lei era già morta.

«O destino», come lo chiamano da queste parti, fissò l'appuntamento anche a Vincenzo Iura, medico, direttore della patologia chirurgica di Bari, ufficiale medico nella guerra del '14-18. Quel giorno era partito da Eboli, doveva andare a Potenza. A Sicignano, un capostazione che lo conosceva gli consigliò di scendere: «È pieno dotto'». «Lui scese», ricorda suo nipote che si chiama come lui, Vincenzo, «ma poi deve averci ripensato. Purtroppo è risalito».

Suo nipote faceva la terza elementare, il giorno della disgrazia aveva piazzato delle tagliole sulla neve per gli uccelli. «Mia zia mi fece una bella ramanzina, diceva che dovevo studiare. Poi sentii le urla dei parenti. Il corpo di mio zio arrivò su un carrello». Vincenzo Iura aveva guadagnato la croce al merito di guerra. Era una figura imponente, di carattere forte, molto religioso, in rapporto epistolare con Saverio Nitti. Aveva partecipato alla disfatta di Caporetto. Quando gli ordinarono di ritirarsi e di abbandonare la postazione, lui restò. Non poteva lasciare i feriti e sfidò la morte. Morì invece la notte tra il due e il tre marzo. Su un treno merci, per ossido di carbonio.

 

Agostino Gramigna e Adolfo Pappalardo